Albe-PantaniRENZO FRANCABANDERA | Non ho mai inserito nel commentare uno spettacolo il mio privato, perché ritengo la prassi totalmente inutile e nociva. Nel caso di Pantani, però, non posso andare con la memoria alla sera passata al Teatro Massimo di Cagliari senza ricordare che è stata la prima volta che la mia piccola bimba di appena sei giorni ha messo piede in un teatro, e agli sguardi amorevoli di Ermanna, Marco e di tutta la compagnia, compreso il fisarmonicista che ha eseguito per lei una ninna nanna in assolo prima dello spettacolo. Per me Pantani è iniziato così.
Se è vero che il mondo del teatro, come quello del ciclismo si ricorda durante lo spettacolo, va avanti un po’ fra gelosie e piccole cattiverie sottolingua, ricordare questo frangente personalissimo è anche un modo per dire che il teatro sa anche essere comunità accogliente, tentativo di dialogo, non vorrei dire famiglia per non scivolare nella melassa peggio di Ofelia nel fiume, ma a volte è un consesso umano capace di riscaldare l’animo.
Torniamo ora lucidamente a Pantani.
Lo spettacolo è un’inchiesta-narrazion-farsesco-coral-epic-tragicomic-dramma contemporaneo sulla vicenda del figlio di una famiglia modesta che, dopo la gloria, termina la sua spericolata fuga nella polvere. Ascesa e declino di Marco Pantani non raccontata da lui medesimo, in una struttura drammaturgica composita che ingloba diversi generi del teatro, senza appiattirsi su nessuno di loro.
La narrazione del vissuto dello sportivo avviene attraverso i ricordi delle persone a lui più care, la famiglia, gli amici, il giornalista che l’ha seguito quando era meno comodo, nel tentativo di andare oltre la damnatio memoriae mediatica a dieci anni dalla sua scomparsa. Lo spettacolo, non breve, si fa seguire senza mai appoggiarsi sulle note della noia.
Qualcosa, nel nostro sentimento sulla fruizione, resta da registrare nella seconda parte dello spettacolo, dove il ritmo del travolgente primo tempo viene sostituito da una narrazione più intima e meditata, cui viene però un po’ meno la lama affilata della prima. Ma di spettacoli di tre ore e mezza di tragedia contemporanea che filano a questo ritmo non se ne ricordano molti. Assai più spesso si assistite a proposte indigeste e autoreferenziali. Forse alla fine lo spettacolo parteggia, si schiera. Ma almeno, in questo, dichiara l’intento, palesa il punto di vista. E’ più corretto di quando a volte la scena, eletta a giudice supremo, si appella alla finta indipendenza, cercando impossibili equilibrismi ed equidistanze alla buona.

Che Pantani sia, scorrendo le pagine dell’epos, un Ettore o un Edipo (ovvero se cada, suo malgrado, da innocente o colpevole) non lo potremo forse mai dire con certezza, ma sicuramente interrogarsi è giusto. Lo spettacolo va visto, anche e soprattutto per ricordare un tempo, un decennio, di cui questa vicenda assume caratteristiche assolute, che vanno da quella del ragazzo della riviera romagnola, a quella di un’Italia tutta, illusa dal successo e poi tradita, violentata, e gettata lì a morire sola.

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