RENZO FRANCABANDERA | Alla maggior parte delle persone piace il sapore del sale, e alcuni ne assumono in maggiore quantità rispetto ad altri. I ricercatori si sono interrogati per capire cosa spinga alcuni ad assumerne dosi superiori.
Al fine di condurreanguria civica uno studio, promosso dalla Università di Stato della Pennsylvania e apparso sulla rivista Physiology & Behavior, sono state reclutate 87 persone – 45 uomini e 42 donne tra i 20 ed i 40 anni di età che hanno mangiato dei cibi per poi compilare un apposito questionario con la valutazione del grado di intensità del gusto.
Per alcuni, che i ricercatori hanno definito “supertasters”, i cibi avevano un sapore più intenso di quello effettivo (dichiaravano essere molto amaro o molto salato ciò che lo era in misura normale). Viceversa si identificava una categoria di “nontasters” che descrivevano gli stessi gusti come addirittura insapori.
La sensibilità al gusto amaro avrebbe la proprietà di essere poi comune con quella al dolce, salato, piccante, e addirittura dell’anidride carbonica nelle bibite gassate.
L’intro vale per descrivere il gusto che per me ha “Soprattutto l’anguria” (in questi giorni ospitato a Milano da Teatro i), testo di Armando Pirozzi e regia di Massimiliano Civica, un classico caso di drammaturgia saporita, di ironia che gioca con i controsensi del nostro tempo, della società, sviluppata su un’idea di conflitto elementare ma efficace: un uomo va a trovare suo fratello. I due appartengono ad una famiglia evidentemente frammentata, in cui nessuno condivide più alcunché con l’altro. Madre e padre ormai in due vite lontane, uno in India a fare l’asceta, l’altra in Africa a far la missionaria. Una sorella dislocata alle latitudini del circolo polare artico. I due fratelli si incontrano a casa di uno dei due. Il visitato passa il suo tempo in un salotto borghese, arredato con minimale eleganza nei colori del rosso e del nero. Il fratello visitatore arriva con una borsa di vestiti e una chitarra, ad annunciare che loro padre è stato dichiarato cerebralmente morto perché caduto in catalessi ascetica.
Ad una notizia del genere ci si aspetterebbe una veemente reazione filiale, parentale. Invece nulla, il silenzio. Un dito levato, una pausa. Poi niente più. La comunicazione fra i due è difficile da spiegare. Il visitatore è intelligenza brillante ma ansiosa, di quell’ansia che viene annegata nel fiume di parole. Il visitato lo si assumerebbe più fragile, introverso. Adagiato su una poltrona design con poggiapiedi, entrambi rossi, alla luce di una lampada rossa ascolta Bach leggendo un libro (dalla copertina evidentemente rossa) il visitato, in elegante pigiama nero, tace e fuma.
Il conflitto sarà fra la questuante logorrea, volta a riallacciare, e il tragico silenzio, incapace o non interessato più a vivere una famiglia di cui non si sente più parte. Il tutto in un ambiente fermo, con luce fissa, calda, da casa coloniale.
La regia è pulita, il sapore netto, e l’insieme risulta teatralmente riuscito e nel complesso ben interpretato da Diego Sepe e Luca Zacchini. Può anche molto piacere, e in fondo non a torto. Questo dipende appunto da quanto la saporita e arguta logorrea del visitatore sia nelle corde dello spettatore per un’ora ininterrotta. Secondo il nostro palato la minestra è un po’ lunga di sale. Ma a teatro, a differenza che nel piatto, si può anche togliere. E se il drammaturgo non ci riesce, reduce com’è dalla precedente incursione, sempre affidata poi a Civica, nelle verbosità filosofica di Magister Eckhart, magari è il regista che può dire l’ultima e aggiustare di sapore, togliendo ove occorra. Giusto un po’, ma quel po’ che può far stare il tutto in maggior equilibrio. Ma chissà, magari è questione di supertasting…

Per Romaeuropafestival, il regista racconta lo spettacolo in questa video intervista
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=ZcFewVFzXGw]

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