clotureBRUNA MONACO | Nel luglio del 2011, in occasione della presentazione di Clôture de l’amour al Festival d’Avignon, Pascal Rambert, autore e regista dello spettacolo, ha ottenuto una serie di importanti riconoscimenti. A soli due anni di distanza Clôture de l’amour è già stato tradotto in numerose lingue e ha esordito negli Stati Uniti in Russia e in Croazia. In dirittura di messa in scena anche in Germania e in Giappone. È arrivata a Roma, al teatro Vascello, la versione italiana di cui lo stesso Rambert ha curato la regia.
La scenografia è essenziale: una sala prova semi-vuota, bianca, una panca in legno, una sbarra per esercitarsi alla danza, le porte anti-panico sul muro che fa da fondale. Anna in jeans, maglietta e zaino in spalla entra dalla porta sul fondo seguita da Luca, anche lui in abiti casual. Gesti ed espressioni ci suggeriscono un’azione quotidiana: chissà quante volte prima di oggi sono entrati in quella palestra, stessa attitudine, stesso orario. Ma l’impressione di quotidianità è subito scalzata dalle parole di Luca: lo spettacolo è iniziato da meno di tre minuti e siamo già all’apice narrativo. Non ci sono preamboli né presentazioni: Luca dice ad Anna di non amarla più. Infranta l’impressione di quotidianità, ora tocca a quella di realismo. I nostri due protagonisti sono in piedi, uno di fronte all’altra, separati da un vuoto di pochi metri che si riduce a qualche decina di centimetri se Luca nella foga dell’attacco si avvicina alla compagna. Anna incassa immobile, ma i muscoli fremono. L’unica sua risposta, non verbale, sta nelle reazioni involontarie del corpo: le sopracciglia che vibrano, gli occhi che si arrossano di pianto, le spalle che si flettono sotto il peso delle parole di Luca. Gli addominali contratti tentano di sorreggere quello che fu un corpo ed è già una carcassa vuota che vorrebbe dissolversi per non subire più insulti e umiliazioni. Al realismo del contesto scenico si oppone il totale anti-naturalismo dell’azione: dura poco meno di un’ora il monologo di Luca e avrebbe potuto continuare a lungo, essere infinito il suo parlare e il silenzio di Anna. Nel testo non ci sono appigli per una fine. È un espediente drammaturgico a interrompere il flusso: un gruppo di bambini apre la porta anti-panico del fondo scena ed entra sostenendo di dover provare una canzone. Fronte al pubblico, il coro di voci bianche intona Bella di Lorenzo Cherubini mentre i coniugi, tesi e perplessi, abbandonano finalmente le postazioni mantenute per un’ora con un po’ di fatica e artificiosità. Camminano per la palestra, aspettano che giovani cantanti, finita la prova, educatamente salutino e ringrazino, escano. L’intermezzo è servito a ribaltare la situazione scenica. Ora Anna occupa il luogo scenico e drammaturgico che era stato di Luca, è il momento della replica. Simmetrica si ripete la dinamica della prima parte dello spettacolo: in un lungo monologo di circa un’ora Anna contrattacca. Luca in silenzio, incassa. Non sono recriminazioni per eventi o mancanze del passato quelle di Anna, riprende una a una le parole di Luca, risponde a ogni sua accusa denigrandolo a sua volta, dandogli del bugiardo.
E poi? Cosa resta? Parole, questo sembra dirci Rambert. La fine di un amore lascia solo parole vuote. Senza la passione, del vocabolario amoroso a cui dà vita una storia di coppia, non resta che una lingua morta. Se la struttura drammaturgica di questo Clôture de l’amour visto al Teatro Vascello è estremamente semplice e schematica, molto più ricercata è la lingua. I due protagonisti sono due intellettuali che hanno sempre rifiutato il linguaggio banale e sciatto della “gente”, espressioni vacue come “una vita rosa e fiori” o “stare fuori come un balcone”. Ma se il loro “noi” s’era creato intorno alla negazione di quel tipo di vocabolario, ora, con la fine della comunione e in qualche modo della comunicazione, non possono a farne a meno. Pascal Rambert infarcisce il testo di richiami meta-teatrali: Anna è un’attrice, Luca un regista. Vita privata e professionale si sono fuse al punto che nemmeno in un momento tragico e cruciale come la separazione riescono a dimenticare il proprio ruolo. Centrale è l’attenzione di entrambi al corpo dell’altro: “alza la schiena” “sta’ dritta”.
Un’operazione drammaturgica arguta, che si esaurisce però in se stessa, la schermaglia verbale non va oltre la constatazione di un fatto: smettere di amare è come, d’improvviso, smettere di capirsi. È una Babele, la fine. All’intuizione non segue molto, il testo finisce con l’essere un colto girare intorno a echi di Wittgenstein e struggimenti post-strutturalisti. E la recitazione dei due interpreti, soprattutto nella parte femminile (troppo esteriore e artificiosa), non aiuta il testo a superare se stesso.

Foto dell’articolo di Futura Tittaferrante

Alcune sequenze della versione francese dello spettacolo

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