GINA GUANDALINI | A Londra l’offerta più ghiotta resta sempre quella teatrale. Tra musical, prosa, tragedia, avanguardia, non passa una settimana che non ci sia una “prima” di qualche interesse, con pubblico sempre al completo, competente ed entusiasta.
Anche chi non ama particolarmente il comico Rowan Atkinson deve ammettere che una delle prove attoriali più convincenti della stagione la sta dando lui, al Wyndham Theatre, ogni sera; a sala strapiena.
è una commedia di Simon Gray che conta ormai più di trent’anni. Il titolo ha un doppio significato: “ i trimestri di Q.”, un professore più o meno negato all’insegnamento in una scuola per stranieri, e “le condizioni, i punti di vista di Q.”. Mr. Bean è qui un docente molto più a suo agio in sala professori, anzi incollato alla poltrona, a interagire con superiori e colleghi, che in classe.
Non che gli altri siano modelli di aggiornamento o efficienza: tutti hanno problemi e frustrazioni, e si parla molto di assenti, come è nello stile di Gray. Siamo ai primi degli anni ’60, in una Londra polverosa dove si fuma accanitamente e si tace spesso. Atkinson tiene molto bene sotto controllo le smorfie, i tic e i manierismi che lo hanno reso un personaggio da cartone animato, ed entra nello spirito dell’autore, che è un piccolo Cechov di fine Novecento.
Rupert Everett torna nel West End recuperando e dando credibilità al play di David Hare sugli ultimi anni di vita di Oscar Wilde, Judas Kiss. Nel ’92, all’Almeida Theatre, con protagonista un Liam Neeeson alla vigilia del balzo cinematografico di Schindler’s List e una regìa pesante, il testo era risultato lento e non convincente. Adesso, quest’uomo obeso e amareggiato, martirizzato dal viziatissimo giovane aristocratico Lord Douglas nel corso di un vagabondaggio tra Londra e Napoli, è una ricreazione sorprendente. I critici hanno rispolverato compatti il cliché secondo il quale se un attore è nato per interpretare un ruolo, questi è Everett come Oscar Wilde. Ma nell’insieme, la prova è di trasformismo: si stenta a riconoscere il guizzante attore leggero che le scene londinesi ben conoscono. Infatti Hare, commediografo e sceneggiatore cinematografico di lunga esperienza (Fanshen, Plenty, Il mistero di Weatherby, Il danno, The Reader) ha resistito all’idea di riproporre per l’ennesima volta il brillante lanciatore di epigrammi e paradossi, per disegnare invece l’artista disfatto e oppresso dall’ostilità sociale, dalla morte incombente, dalla delusione di non essere amato; e Rupert Everett si ritaglia un personaggio indimenticabile. Freddie Fox, figlio del veterano attore James, è un bel ragazzo qui biondissimo e capriccioso, ed è perfetto negli eleganti panni dell’isterico “Bosie”.
L’ultimo film della serie di James Bond, Skyfall, che tuttora richiama un bel po’ di pubblico nei cinema londinesi, porta chiaramente avanti anch’esso il discorso teatrale: contiene infatti un “passaggio di consegne”. Dai tempi di Goldeneye la veterana del palcoscenico Judi Dench si è assunta per sette film il ruolo del “capo” di Bond, chiamato “M”. L’idea di assegnare un ruolo così maschile e decisionista a una donna ha avuto successo. La Dench fu portata alla notorietà mondiale nel 1960, a quindici anni, dal nostro Zeffirelli, che la volle come infantile Giulietta nella sua rivoluzionaria messa in scena di Romeo and Juliet a Stratford-on-Avon. Ha poi proseguito con una carriera, nel teatro di prosa e anche nel cinema, di altissimo livello, alla pari con Maggie Smith e Joan Plowright. Adesso, in Skyfall, muore uccisa dal cattivo di turno, e il ruolo di “M” torna ad essere affidato a un uomo: viene preso in consegna da Ralph Fiennes, che qui è l’ammiraglio Gareth Mallory. Ecco assicurata una occupazione fissa per il futuro al nostro mellifluo ed elegante attore britannico, ormai più che cinquantenne: e ormai sempre in oscillazione tra film d’azione, in cui appare lievemente sprecato ai patiti del palcoscenico, e ruoli teatrali introspettivi.
Nel video che proponiamo Rupert Everett parla dell’opera “Judas Kiss”
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