VINCENZO SARDELLI | Va a carte quarantotto chi osasse cercare una logica, un filo conduttore negli spettacoli di Antonio Rezza, virtuoso del non senso, anatema del criterio, beffa mordace delle aristoteliche unità di spazio, tempo, azione. Più che un uomo un mistero, che con la sua vocetta stramba rovescia sul pubblico battute a gogò.
L’antropomorfo spettacolo “Pitecus”, che abbiamo visto al Teatro Binario 7 di Monza, è una performance scanzonata e dissacrante.
Con la sua comicità più letale del polonio, con il suo idioma adulterato, lo stralunato artista novarese trapiantato a Nettuno lambisce tutti i caratteri dell’individualismo umano: le sue miserie e le sue viltà; i suoi decori e le sue ambizioni; i suoi (rari) momenti poetici; i suoi (tanti) tratti patetici.
Un po’ arte povera un po’ commedia dell’arte, un po’ improvvisazione un po’ clownesca narrazione da cantastorie di piazza, Rezza si presenta sulla scena come una specie di folle incrocio tra un Quasimodo (nel senso del gobbo di Notre-Dame) che l’ha scampata bella e il redivivo strabismo divergente di Martin Alan Fieldman, lo stravagante servo Igor di “Frankestein Junior”.
A dare consistenza ai suoi variegati personaggi la scenografia semplice di tende multicolori e tagli dove Rezza infila la testa, una mano, una gamba. Mimo e comicità si intersecano in questa bizzarra tecnica di quadri, inconfondibile marchio di fabbrica di Flavia Mastrella, artista e scultrice che cura gli allestimenti e le scenografie.
Nei quadri di “Pitecus” prevale il triangolo, simbolo sincretico da cui nascono teste spigolose capaci di ragionamenti ineccepibili, maschere assurde e oniriche, fumetti capaci di cattiverie sublimi. I colori usati a tinte piatte, gialli, verdi, azzurri, rossi, riportano al mondo dell’infanzia, alle costruzioni, ai giocattoli di legno, ma al contempo danno anima alle perversioni di questa singolare umanità: laureati, sfaticati, giovani e disperati alla ricerca di un’occasione che ne accresca le tasche e la fama; moralisti che speculano sulle disgrazie altrui; vecchi in cerca di un’identità che li aiuti ad ammazzare il tempo prima che il tempo ammazzi loro; persone che tirano avanti una vita abitudinaria; individui che vendono il proprio corpo in cambio di un benessere materiale fittizio. Sono tante storie. È un mondo caotico dove si mescola un’umanità sgraziata, qualunquista, anonima, eppure sfacciatamente narcisista, dall’incedere nevrotico e dalla recitazione caricaturale.
Il pubblico ride delle proprie paure, dei propri errori, di un mondo misero e impudentemente banale.
Attore e scena sono in sinergia. Sul palcoscenico sale quasi materialmente il pubblico stesso. In questo mescolamento ingarbugliato non si capisce più chi ride di chi, se il pubblico dell’attore o l’attore dei malcapitati spettatori, coinvolti e bersagliati all’inverosimile da un’ironia tagliente che sfida ogni cinismo.
È un gioco paradossale in cui la scenografia gioca un ruolo essenziale. Non c’è storia, dunque: solo i tanti personaggi interpretati unicamente dal corpo di Rezza, dal suo volto plastico che irrompe sulla scena, riempie fessure, esprime malessere.
La luce illumina l’artista in un caleidoscopio di risate. L’armonia è rotta da questo saltimbanco festoso e fastoso, inesauribile, capace da oltre vent’anni di calcare la scena con lo stesso spettacolo. E di generare, ogni volta, nuove riflessioni e nuova ilarità.
Un assaggio dello spettacolo, mix di genio e cretineria:
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