BRUNA MONACO | Luglio 2013. Sono passati quattro anni dalla morte di Pina Bausch, quaranta dalla fondazione del Tanztheatre di Wuppertal. La compagnia commemora e festeggia, cerca una sintesi che non sacrifichi l’uno né l’altro polo emotivo: il dolore (lo smarrimento) e la gioia (la gloria).
Dal 2009 a oggi la tournée del Tanztheatre è stata ricchissima di date, quanto mai internazionali. Il repertorio coreografico ereditato da Pina Bausch, si sa, è vastissimo e La sacre du printemps e Café Müller, fra le sue primissime creazioni (1975 e 1978), sono offerti al pubblico come testimoni, prove vive d’un passato illustre. Disperati tentativi di ripetere ciò che è stato. Gli spettatori che numerosi assistono provano a sentirsi parte di questa mimesi. Ma non può funzionare: come ci insegna la filologia, testimone non è testo. Il testimone fa parte della tradizione, è tràdito e inevitabilmente tradisce, contiene degli errori (o delle interpretazioni) che lo allontanano da un originale che non possediamo più. Café Müller del 1978 non lo possediamo più. Mancano Pina Bausch, Malou Airaudo, Nazareth Panadero Jan Minarik. Ce ne resta il ricordo, nostalgico, e una versione televisiva del 1985 realizzata da Peter Schäfer. Non possiamo fare a meno di interrogarci sul senso di questa operazione: quale valore può avere riproporre con un cast rinnovato (solo Dominique Mercy c’è in entrambe le versioni) uno spettacolo come Café Müller?
Se il paragone con la filologia classica o romanza pare pertinente, è vero però che qui la situazione è più complessa: i testi (o testimoni) della danza non sono scritti, stabili, ma materia viva, in qualche modo in fieri. L’errore non è imputabile a un’interpretazione errata di un carattere ambiguo, a una svista durante la copiatura: non al passo eseguito male quindi. Anzi, nelle arti dal vivo, a furia di copiare, probabilmente si guadagna precisione. Si perde autenticità, però, vita. Ne La sacre e Café Müller andati in scena questo mese al San Carlo di Napoli, mancano strazio e profondità. Se si fosse trattato di versioni recenti di Giselle o del Lago dei Cigni non sarebbero insorti dubbi sul senso della riproposizione: il balletto classico è un’arte di repertorio, il danzatore è interprete, non creatore, si muove entro i margini stabiliti dalla tradizione. Ma Pina Bausch ha rivoluzionato la danza, e la sua non è stata una rivoluzione formale o tecnica come quella di Marta Graham. Con la Bausch i danzatori si emancipano dal ruolo di interpreti e diventano creatori. Le coreografie, prima elementi di repertorio, sono ora opere originali. Pina, osservatrice di genio, raccoglieva le proposte in termini di temi, intenzioni, movimenti e costruiva i suoi spettacoli non intorno a, ma con i danzatori. Il valore artistico di un “nuovo” Café Müller può essere allora messo in discussione. E si potrà forse ammettere che le opere d’arte dal vivo hanno scadenza breve perché della vita condividono anche il destino: non possono sopravvivere ai propri creatori, se non a condizione di scontrarsi col paradosso di sopravvivere a se stesse.
Il valore commerciale è invece indiscutibile: al San Carlo di Napoli i posti sono esauriti. Lunghissimi gli applausi, standing ovation. Ma non è credibile che sia solo un’operazione commerciale. Con la morte di Pina Bausch, un’inevitabile smarrimento ha investito chiunque abbia lavorato con lei e il Tanztheatre tutto. Cosa fare, sopravvivere alla propria fondatrice? Ridefinire la linea artistica? Seguire quella della Bausch? O continuare a esistere come reperto fossile vivente, inseguendo il sogno dell’immortalità dell’opera?
Oppure rassegnarsi alla riproducibilità tecnica. Al video che, trascurando la presenza dei corpi, è il contrario del teatro. Perché la verità e la fedeltà al testo originale che i danzatori-copisti di oggi non riescono a raggiungere, sembrano invece ben avvicinate dai video. Nel catturare i corpi dei danzatori la riproduzione tecnica coglie anche la verità del gesto e, anziché ucciderlo, garantisce allo spettacolo dal vivo, se non l’immortalità, almeno un testimone molto vicino all’originale e, in fin dei conti, più emozionante di quello tràdito mendiante “riproduzione umana”.
Cosa resta quindi del teatro perduto?
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La bellezza e verità dello spettacolo dal vivo; bell’articolo! In più, Pina ci ha fatto incontrare i danzatori, li abbiamo conosciuti (anche solo assistendo in platea) uno per uno. Grazie!