lolita babiloniaRENZO FRANCABANDERA | La ninfa undicenne arriva in monopattino da fondo scena, attraversando la sala illuminata da un faro, mentre l’adulta ha appena finito di elencare la “babilonica” tassonomia di punti di vista, pareri, voci di popolo sul personaggio di Lolita: dal chi non ne sa, al chi la vive nel suo immaginario; la bambina è nell’età di passaggio dall’infanzia all’adolescenza, dove alcuni gesti iniziano a vivere il crinale dell’equivoco, diventa oggetto (e soggetto?) di seduzione. Come le more addentate dallo spiedino, gesto innocente e capace di un potenziale di provocazione adulta di cui chi lo pone in essere (e non parliamo qui della giovane attrice ma di ogni ragazzina di quell’età) può o meno essere consapevole, tutto in quell’età diventa ambiguo. Il corpo cambia, porta i segni dell’età feconda della specie umana, che socialmente si sposta vicino ai 40 anni, ma nella dinamica sessuale inizia invece prestissimo. Sempre più, in un’iconografia di diari, lucchetti, post-it, sms, canzoni di x-factor, fra bambine-ragazze, che giocano con le bolle di sapone e indossano capi di abbigliamento che le trasformano in signorine, che vanno in palestra di karate e di colpo ti sembrano Uma Thurman in Kill Bill, pronte a combattere per la vita.
Tutto questo c’è. Tutto questo nel nuovo spettacolo di Babilonia Teatri è visibile. Noi l’abbiamo visto, dopo il debutto al Napoli Teatro Festival, nella prima data della tournèe, ospitata nel festival L’ultima luna d’estate, storica rassegna di fine agosto che ha luogo nelle dimore d’arte del lecchese, diretta da Luca Radaelli e che prosegue fino all’8/9. (La prossima è prevista a Bassano per Bmotion e poi ad inizio settembre a Roma per Short Theatre).
In scena oltre alla piccola Olga Bercini, anche una Valeria Raimondi che, dopo un paio d’anni di chioma a zero, sfoggia una più tranquillizzante capigliatura altezza spalla. Lei e la ragazza si alternano nella lettura al computer, nelle scene di canto in playback. La Raimondi è volutamente in un ruolo quasi equivoco di madre-amica e regista sul palcoscenico, mentre lo storico collaboratore della compagnia, Vincenzo Todesco, opera i suoi interventi sul palco in maniera kantoriana, irrompendo in scena per sistemare questo o quello, amplificando la logica inganno-disinganno che ovviamente nella parte finale dello spettacolo viene mitigata per evitare che il climax di evocazione della sensualità si interrompa, mentre, come chi ha a che fare con gli adolescenti sa, la parola suicidio appare ogni tre per due fra sms e diari, mista a storie d’amore, racconti di rapporti conflittuali e avidi col cibo.
Lo spettacolo è in questi segni, in continuità con la modalità narrativa e di parola della compagnia, con gli elenchi e le raffiche verbali prive di emotività, di cantilena italica. Necrologi emotivi, asettiche travi a cui inchiodare il pubblico, ma con il tentativo, ormai in corso da alcuni spettacoli, di trovare anche altri segni. Va ad indagare un età su cui in Italia gli spettacoli sono pochi e mal confezionati, mentre molto e anche di grande pregio, vediamo arrivare dal Nord Europa, con proposte spesso di gruppo (le ultime di particolare significatività il lavoro di Gob Squad & Campo “Before your very eyes”, visto a Vie 2011 a Modena, anche quello sul tema dell’età del cambiamento, o il “Once and for all we’re gonna tell you who we are so shut up and listen” Total Theatre Award 2008 al Fringe Festival di Edimburgo, ospitato sia a Teatro i a Milano che a Vie a Modena, con un gruppo di vulcanici preadolescenti e adolescenti belgi).
Questo di Babilonia è uno spettacolo evidentemente di transizione, come l’età che racconta, e che forse sta cercando ancora una quadratura definitiva. Ha maggior compattezza nella parte iniziale, mentre nella seconda mezz’ora alcune buone idee restano un po’ slegate e non incidono quanto potrebbero, ricorrendo a qualche immagine un po’ più usata. Il finale vira sul noir, anche se non vuole definire, sancire, concludere. E anzi anche qui, come in Pornobboy, una macchina di quelle da beach party di Riccione, chiude il lavoro, inondando la scena di bolle di sapone.  E’ la prima volta, tuttavia, che la drammaturgia, la parola, non è il principale elemento. E che le evocazioni visive prendono una consistenza nel complesso coerente, in un equilibrio che può apprezzarsi. Chi ha figli di quell’età li troverà in scena, rappresentati in modo corretto, vero. E già questo, se il teatro è confronto critico col proprio tempo, è un risultato, anche se perfettibile, proprio nella levità poetica e nel progresso del linguaggio della compagnia. Lolita in fondo è un pretesto. Lolita ancora non esiste. Lolita potrebbe essere mia figlia: ma al primo fidanzatino che suona al citofono tiro appresso palloncini d’acqua bollente, giuro !