RENZO FRANCABANDERA | Arrivi ad un certo punto che inizi a guardare l’insieme delle riflessioni sulla tua arte come un caleidoscopio in cui c’è l’immagine e poi i mille frammenti, spesso ripetitivi, che la compongono. E inizi a giocare a far perdere di senso all’immagine grande andando a decomporla nelle singole parti.
E finisci per capire che dopo questo processo dall’alto al basso, ne inizia un altro dal basso all’alto capace di ridare senso all’arte che praticavi ma con la leggerezza dell’informale.
Tutto diventa leggerissimo e inconsistente. Così rispetto a questo mondo, che altro potrebbe fare chi ne ha postulato l’essenzialità se non mendicare qualcosa? L’Arte povera, tanto povera che quando entri sembra di stare davanti alla Venere degli stracci di Pistoletto. Solo che al posto della Venere c’è uno scheletro e al posto degli stracci una serie di oggetti di risulta, quasi una piccola discarica teatrale, dalla quale Andrea Cosentino attingerà di volta in volta il necessario per realizzare micro-sequenze in nonsense.
Questa prospettiva ancor meglio si legge ripercorrendo il viaggio artistico di Cosentino à rebours, dove già il dialogo massmediologico, il format, il codice veniva decostruito, reso più finto del finto. Oltre Telemomò cosa poteva esserci? Ecco, lo sappiamo ora, in un melange estremo fra i micro sketches nonsense di Telemomò, le finte conferenze e i personaggi del teatro “locale” di Primi passi sulla luna e Angelica.
In realtà forse il Cosentino, come direbbe uno dei suoi conferenzieri da strapazzo, vuole, con questo capriccio d’arte, prendere le distanze non solo concettualmente ma persino fattualmente del tragico gorgo del teatro di narrazione cui evidentemente in maniera del tutto erronea e “imbroppria” la sua forma spettacolare è stata da taluni ascritta (cfr addirittura la voce Andrea Cosentino su Wikipedia).
“Tuttavia Cosentino arricchisce e fonde -per dirla sempre con il redattore della wikinote- il narrare scenico con”.
E infatti anche qui, attraverso l’impoverimento di cui si è fatto cenno, Cosentino arricchisce e fonde.
Sull’esperimento Esercizi di rianimazione le voci critiche si sono levate discordi. Pare che l’esordio romano, sempre in un’aura di compiacimento per l’arguzia e le trovate dell’artista, sia un po’ andato fuori binario rispetto all’icasticità del segno scenico e del gesto artistico.
Nella lectio spectacularis presentata la settimana scorsa a Milano al teatro della Contraddizione, tuttavia, tale deriva estrema è parsa riassorbita in nome di una fruibilità rimasta viva, e finanche lirica in un finale che rompe il gioco, lo schema della depauperazione per tornare alla costruzione di senso dal basso. Si sghignazza fra sé e sé, capendo delle allusioni, cogliendo qui e lì, navigando a vista o vedendo navigare.
Che possiamo allora dire di questa operazione che vede Cosentino con Bruno De Franceschi al pianoforte a fare da live soundtrack? E’ una minestra sicuramente nata da evidenze raffinate e sofisticate, citazioni e metacitazioni fra Bene e male dell’arte scenica, teatro e metateatro. Che proprio quando potrebbe rischiare di sembrare una broda indigesta, riesce a recuperare la deriva nonsense attraverso il potere lirico della parola.
E del concettuale, che vogliamo dire del concettuale? Ecco, qui il rischio è in agguato. E’ tutto questo accessibile e non a volte autoreferenziale? L’arte che parla di sè a sé è un codice accessibile e democratico nell’idea di fondo? Su questo Cosentino sta svolgendo ulteriori riflessioni, prendendo come spunto la figura della dea del marketing performativo Marina Abramovic. Attenzione però a non mettere al centro solo il linguaggese, perché il rischio di finire su un binario cerebrale è sempre in agguato, e oltre questo esperimento, e nel tentativo di rifuggire dalla narrazione tal quale, il periglio è di avvitarsi in spirali che sicuramente il conferenziere cosentiniano non definirebbe mai “pippologiche”, ma la possibilità che lo siano c’è.
Detto questo Esercizi di Rianimazione è da vedere. Perché di roba intelligente e critica in giro non ce n’è molta. E anche non capire tutto serve. In scena come nella vita.
E dura molto meno della vita.
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