BrugoleVINCENZO SARDELLI | Compartimenti stagni. E ti viene quella faccia un po’ così se vai alla rassegna di teatro “omosessuale” Illecite visioni al Filodrammatici di Milano. Che per me esiste solo “il” teatro. Con la t maiuscola o con la t minuscola. L’arte è una categoria dello spirito. Un universale, alla maniera kantiana. Non a caso Corrado Alvaro si imbestialiva quando gli davano del “meridionalista”.
Le etichette sono limitanti: a un autore “indipendente” provate a pagare bene un lavoro su commissione, e vediamo che cosa resta della sua indipendenza.

E però, riguardo al teatro omosessuale, fai meno il tranchant se pensi a quel 21enne gay che si è tolto la vita giorni fa. La tematica è forte, ha il suo perché. L’opinione pubblica va sensibilizzata.

E però la faccia diventa un po’ così se t’accorgi che il pubblico della rassegna del Filodrammatici è quasi tutto omosessuale. E chissà, gli etero non hanno trovato posto. Magari se ne impipano. E allora, chi sensibilizza chi?

Il timore è che queste rassegne servano soprattutto a fare rito. E anche un poco cassa. L’etichetta gay tira. Adesso si dice LGBT, e sembra il nome di un allucinogeno. Volti sorridenti, voci chiassose: un evento. La Milano tollerante di Pisapia sta sdoganando un’identità gay armonica. Niente derive vintagefolk. Tutto è sobrio in questa serata di sabato 9 novembre, anniversario della Caduta del Muro e della Notte dei Cristalli. La discriminazione ha gli anni contati, i muri pure.

Iniziano gli spettacoli. Oggi sono due. Protagonista del primo è un’attrice lesbica, del secondo un attore gay. E la faccia ritorna un po’ così. Perché al primo spettacolo ci sono quasi solo donne. Solidarietà, appartenenza, curiosità, impegno: belle parole. Della serie “vado, mi diverto e torno. Forse divento più consapevole della mia identità. Mi faccio una risata. E stop. Ma cerco me stessa. Solo me stessa”. In barba a universali e categorie dello spirito.

La simpaticissima Dodi Conti ripropone il divertente cabaret cult Bevabbé: una Saffo stanca di effusioni lesbiche studia da pretty woman e parte all’assalto dell’universo maschile. Ma al cuor non si comanda, agli ormoni neppure. Largo agli stereotipi sui maschi: il “bello e impossibile”, il Peter Pan, l’edipico cronico, il depresso, il “vorrei ma non posso”. Non c’è pace per la povera aspirante etero. E allora riflusso autoreverse all’omosessualità. Però vissuta tra le mura di un convento. Con tanto di facciata vocazionale. Ah, se le pareti delle celle potessero parlare.

Evviva il luogo comune. E ci voleva proprio una rassegna omosessuale. Non bastasse Checco Zalone. Bevabbé: Dodi Conti sa recitare. Fa ridere. S’ispira a Dario Fo e al suo grammelot. E che rassicurante certezza trasmette alle lesbiche in sala: chi lascia la strada vecchia per la nuova… Ah, i proverbi. E la faccia torna un po’ così.

Intervallo con le Brugole, Annagaia Marchioro e Roberta De Stefano. Una personalità artistica sempre più consapevole, quella delle due attrici di scuola Paolo Grassi. Che qui rendono il loro botta e risposta sapido e avvincente. E però ne viene fuori un ritratto dell’universo lesbo proprio da macchietta, se tutte le lesbiche dopo una notte d’amore corrono all’Ikea a far capanna. E si riconoscono dal conto Bancoposta, dalla fregola per il calcio, dall’acconciatura dei capelli impazzita. Lo dicesse un omofobo, apriti cielo. E ancora pubblico tutto femminile.

Lo spettacolo artisticamente più riuscito è Una divina di Palermo, con Massimo Verdastro, che attinge dal tessuto drammaturgico del poeta Nino Gennaro. Maschera da commedia dell’arte, testo intriso di neologismi e giochi di parole, figure retoriche, costruzioni nominali, Verdastro impasta nella sua performance superba motti laidi e parole sublimi, toni disperati e rapide risalite. Sono innumerevoli gli excursus musicali: da Vivaldi, Verdi e Puccini, fino al rock potente di Joplin e Bowie. E che la vera arte è universale, senza confini né etichette, lo confermano i cenni alla pittura di El Greco e di Watteau, i riferimenti colti a Pasolini, Garcia Lorca, Prévert e Baudelaire.

Bel testo sulla solitudine, di fuoco e di sacro. E la nostra faccia rimane definitivamente così. Perché il pubblico, davanti a un attore maschio, è diventato di nuovo quasi tutto maschile. Ma la sala è semivuota, molti gay hanno disertato. Perché i riti del sabato, verso mezzanotte, raramente contemplano il teatro.

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