IrinaVINCENZO SARDELLI | Figlia d’arte, Irina Brook. Ma è più corretto dire che nell’arte è immersa h24. Il padre Peter è uno dei principali registi della scena contemporanea; la madre Natasha Parry è una brava attrice cinematografica; il fratello Simon, un filmmaker in ascesa. E non parliamo poi della parentela larga…
Anche per lei la passione si chiama teatro. E prova a moltiplicarsi, più che a dividersi: tra famiglia “di sangue” (è madre di Prosper e Maia, di 14 e 10 anni) e famiglia artistica (i suoi attori); tra l’Inghilterra e la Francia, dove vive adesso. E dove dirige il Teatro di Nizza, città «porta sul Mediterraneo, proiettata verso l’Italia, ma anche vicina a Russia, Inghilterra e Armenia». Così dice, convinta.

Fatto sta che adesso Irina Brook si trova a Milano con la sua giovane compagnia multietnica Irina’s Dreamtheatre per la Trilogia delle Isole, in scena al Teatro dell’Arte tra il 21 novembre e l’8 dicembre: Tempête! L’île des Esclaves e Une Odyssée. Tre storie di vendetta, perdono, amore e libertà. Una trinità letteraria: Shakespeare, Marivaux e Omero.

Signora Brook, qual è il filo conduttore della trilogia?

È l’isola, metafora dello spirito. L’isola è un non-luogo fuori dal mondo. Attrae. Come nel teatro, anche su un’isola tutto è possibile. A livello scenografico c’è poi un’unità simbolica di luogo data da una distesa di sabbia bianca.

È più galvanizzata o preoccupata di arrivare a Milano dopo Bob Wilson, che ha aperto la stagione del Teatro dell’Arte, e dopo suo padre, che tanto successo ha avuto con le sue rappresentazioni?

È mio padre che mi ha trasmesso l’amore per il teatro. Soprattutto l’amore per l’attore-centro di tutto. Non sono spaventata dal confronto. Ci sono abituata. Come potrebbe essere diversamente? Lei ha citato i due maggiori registi del mondo. Io ho bisogno di lavorare per esprimere il mio stile. Voglio condividere la mia idea di teatro. Che è l’umanità, ciò che si distingue dalla vita ordinaria.

Come lavora con gli attori?

Conto non tanto sul lavoro tecnico, ma su come si cresce insieme. È l’evoluzione che importa, nel teatro come nella vita quotidiana. Vita reale e teatro coincidono. Il teatro non è un lavoro impiegatizio. È condivisione. Io e i miei attori siamo una comunità. Il contatto avviene sin dalla cucina, dal dividere il cibo e gli aspetti consueti della vita. Gli spettatori colgono subito che il nostro gruppo è compatto. Che siamo complici. Quello che chiedo a un attore è di mostrare la sua interiorità. Aprirsi senza nascondersi. Il pubblico questo lo vede. Sulla scena non c’è solo l’artista, ma la persona. E la sua personalità.

Qual è il suo segreto?

La delicatezza nei rapporti. La dolcezza nell’apertura alla relazione. Il rispetto totale della persona. Un dialogo vero, senza distacco. E senza trasmettere la paura di sbagliare, che inibisce l’espressività. La compagnia teatrale è una famiglia. È importante scegliere bene le persone con cui si lavora.

Sono importanti anche comicità e ironia?

Moltissimo. L’infanzia con mio padre è stata sempre all’insegna dell’umorismo. Lui è “serio senza prendersi sul serio”. Gli inglesi sono sempre ben disposti verso l’humour. I francesi, invece, sono seriosi. Ad esempio, non ammettono la risata in una messinscena di Shakespeare. Ma ridere, sorridere, non toglie profondità alle cose. Io amo l’ironia. È il cinismo che non mi piace.

Il Web incide sulla capacità dei giovani di accostarsi a uno spettacolo teatrale?

Il teatro è l’antidoto a Internet. È cura del dettaglio e della relazione. Facilita una comunicazione reale. Internet invece isola. Disumanizza. Ma per avvicinare i giovani al teatro occorre offrire loro spettacoli di qualità.

Che cosa Le piace del teatro italiano?

(smorfia sul viso) Devo confessare qualcosa di terribile. Avendo due famiglie, la mia personale e quella teatrale, non ho avuto proprio il tempo di vedere spettacoli negli ultimi anni. Ne ho visto pochissimi anche di francesi. Prometto di recuperare. Rispondo l’anno prossimo.

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