MARIA PIA MONTEDURO | Henrik Ibsen è un mare magnum. Nella sua ampia produzione, lo scrittore norvegese affronta molti temi e in ogni sua opera drammaturgica, a mo’ di scatola cinese, sono ritrovabili le grandi problematiche del suo teatro e poi, dramma per dramma, specifiche situazioni e soluzioni. “I pilastri della società” (1877, a volte tradotto come “Le colonne della società” o “I sostegni della società”), pur se riconosciuto come l’iniziatore del teatro sociale di Ibsen, non è tra le opere più rappresentate, almeno negli ultimi cinquant’anni, probabilmente perché molte delle tematiche qui in nuce sono poi ampliati e amplificati in opere successive. Quindi interessante l’operazione del Teatro di Roma, in coproduzione con il Teatro Pergola di Firenze e la Fondazione Teatro Stabile di Torino, di presentare questo testo con la regia di Gabriele Lavia che ne è anche l’interprete principale nel ruolo del console Karsten Bernick.
In questo dramma è prorompente lo scontro tra morale pubblica e morale privata, tra strategia di potere e senso di servizio alla comunità, tra capitalismo e diritti dei lavoratori. Ibsen è sempre attento alle esigenze sociali e l’analisi che si delinea in questo testo è, per gli anni in cui è stato composto, estremamente attenta e anticipatrice. La disanima attuata sui pericoli di un capitalismo selvaggio che non tiene conto delle esigenze del lavoratore, che sull’altare del profitto è disposto a sacrificare vite umane, che sullo stesso altare sacrifica volentieri posti di lavoro, è veramente profetica. Il protagonista è un personaggio complesso: imprenditore privo di scrupoli, molto furbo, sa però donare alla comunità serenità e benessere, mantenendo un certo equilibrio tra i propri interessi e quella della collettività, anche perché, non considerando questi ultimi, la società stessa scivolerebbe verso caos e anarchia, che disturberebbero i suoi interessi. Grande comunicatore, uomo che sa essere affabile e che maschera la propria furbizia con una patina di decoro apparentemente inattaccabile, egli non si pente, fino a un certo momento del dramma, di aver costruito la propria fortuna (e in parte quella della società) su menzogna e falsità. “Pereat unum pro multis”, potrebbe essere il suo motto, convinto di essere quasi l’unto del Signore, l’unico in grado di garantire rigore, prosperità con conseguente serenità, alla società di cui si sente, con malcelato orgoglio, un pilastro, forse addirittura “il” pilastro. Ma quando interviene un quid che altera l’iter dei suoi progetti (il ritorno cioè in città di una donna straordinaria, Lona, da lui amata in gioventù) una parte della sua struttura granitica inizia a vacillare. Lona invoca per lui e per gli altri verità e sincerità, cercando di far capire che una società che si basa sull’inganno e sulla menzogna, anche se economicamente florida, è comunque marcia e da abbattere. Con maestria, degno anticipatore di grandi comunicatori di là a venire, Bernick rivolta tutta la vicenda a suo favore: la confessione pubblica, che con innegabile coraggio affronta – in cui rivela alla comunità una propria colpa passata che in gioventù aveva deliberatamente addossato al cognato, e che diviene una propria autocandidatura a continuare a reggere le sorti della cittadina – è innegabilmente un pezzo forte del dramma e un “trattato” molto utile per chiunque intenda fare politica, se si vede la politica come autoaffermazione e facile occasione di arricchimento… Pilastri della società devono essere verità e libertà, anche se in chiusura del testo emerge la forza delle donne quali appunto pilastri di una società equa e solidale.
Gabriele Lavia, come detto, cura regia e interpreta il ruolo principale. Come spesso accade, la regia di Lavia è molto curata e l’artista fa ruotare tutte le situazioni intorno a un fulcro, che è la figura, per certi versi affascinante e magnetica, di Bernick. Lo spettacolo però pecca di alcune lungaggini e non sempre il ritmo è fluido. Il cast, cui si riconosce impegno e validità, non brilla in modo particolare, costretto dalla regia a una recitazione spesso sopra le righe, con fastidiose incursioni nelle macchiette. Lavia, dal canto suo, non indulge in maniera particolare ad autocompiacimenti, ma sopisce la modernità del testo con un adattamento teatrale troppo ottocentesco e tradizionale.
Alla scrivente poi colpisce in maniera negativa che, come sottolineato dall’epigrafe che compare sui manifesti dello spettacolo – la politica è corrotta perché la società è corrotta – si sia scelto di cavalcare la tigre dell’antipolitica, tradendo quello che è lo spirito ibseniano. Egli infatti, pur se con sano realismo riconosce i limiti di molti politici, non vede la politica necessariamente come sinonimo di malaffare.
Per saperne di più: http://www.teatrodiroma.net/adon.pl?act=doc&doc=2548
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