Arlecchino LatellaNICOLA ARRIGONI | Uno spettro si aggira per i teatri italiani: l’Arlecchino bianco, larvale e demoniaco di Roberto Latini e Antonio Latella. Servitore di due padroni, ma a nessuno asservito, se i due padroni sono pubblico e direttori di teatri. Il servitore di due padroni da Carlo Goldoni attraverso la riscrittura di Ken Ponzio e soprattutto la regia di Latella è diventato un caso e la sua analisi, al di là della valutazione estetica, chiama in causa anche l’etica della creatività e la politica del teatro. La possibilità di offrire e in cartelloni di teatri di tradizione il testo goldoniano, consacrato dallo storico allestimento di Strehler, ha fatto breccia nelle sale italiane. 

Come dare torto ad Ert: operazione di vendita più che riuscita.
Ma questo Servitore non s’è fatto più di tanto asservire dalle esigenze degli abbonati e dei direttori artistici che procedono in coppia: i primi tetragoni nelle loro certezze sceniche, i secondi disposti ad assecondare, soprattutto in un periodo in cui avere chi paga in anticipo la propria presenza in teatro rischia di essere una rarità. Il debutto al paludato Goldoni a Venezia e poi a Padova e a Cesena ha suscitato scandalo e timori. Il pubblico venziano non è stato al gioco, non si è riconosciuto nell’Arlecchino di bianco vestito, ha urlato allo scandalo, ha abbandonato la sala.

Alla sollevazione dell’abbonato ha fatto seguito la corsa di delegazioni dei vari teatri per vedere in anticipo lo spettacolo e mettere a punto strategie e approfondimenti al fine di preparare gli spettatori. E’ accaduto al Municipale di Piacenza dove Diego Maj – direttore artistico della stagione – con la collaborazione di Pietro Valenti di ERT ha pensato bene di inviare a tutti gli abbonati un libretto di sala con lettera di accompagnamento, intervista a Latella e spiegazione dello spettacolo. C’è da dire anche che il Servitore di due padroni sta trovando il suo assetto grazie non solo agli interventi di Antonio Latella sulla drammaturgia, ma anche ad una presa in carico dello spettacolo da parte di un gruppo di attori che condividono la volontà di Latella di intendere il teatro come una comunità aperta.

L’orizzonte è rifondare il teatro sulla base della verità/finzione – Una hall d’hotel invece che la piazza – ma cos’altro è una hall se non una piazza? –: questa la scena contemporanea di Annelisa Zaccheria che fin dall’aprirsi del sipario dice una cosa chiara, ossia che le attese dello spettatore sono disattese. Le porte che danno sull’hall ricordano L’albergo del libero scambio, ma sono anche il segno di quella soglia oltre la quale si nascondono le ipocrisie e le debolezze della famiglia borghese del dramma otto-novecentesco.

Il servitore di Goldoni è una commedia che vira al grottesco, se non al dramma, è la storia di un omicidio, quello di Federigo Rasponi, di un camuffamento, quello di Beatrice, di una fuga, quella di Florindo, forse l’omicida di Federigo, di un possibile travestimento/resurrezione dello stesso Federigo nei panni di Arlecchino, che essendo maschera è fantasma, spirito, larva. Non a caso il bellissimo Arlecchino di Roberto Latini è bianco, è somma di tutti i colori e nessun colore.

La riscrittura di Ponzio non lucidissima, a tratti ampollosa nel suo procedere e difficile da dire per gli attori è lo scoglio che attende non solo gli interpreti, ma anche gli spettatori. Latella e i suoi meravigliosi attori fanno il miracolo e riescono a distillarne il portato. Così il Brighella in veste di albergatore del bravissimo Massimo Speziani è una sorta di regista/narratore interno, scardina la struttura e non solo perché legge le didascalie del testo, ma perché è l’officiante di una sfida: cercare la verità fra quinte e riflettori. Come accadde per l’Arlecchino di Strehler, così anche per questo Servitore la prospettiva è tutta sulla semantica teatrale. C’è l’urgenza di rileggere la tenuta del linguaggio scenico nella nostra contemporaneità, è l’esigenza di andare in fondo all’inganno/menzogna del teatro e cercarne la verità recondita. Insomma lo spettatore va a teatro per Il Servitore di due padroni e si ritrova a dover fare i conti con l’ultimo mezzo secolo di teatro. La memoria registica, fra Strehler e Castri, è codice che poi salta e salta nella seconda, bellissima parte, in cui la finzione del teatro si mostra in tutta la sua fragilità, in cui cantinelle e sillabe, sudore e chiodi sono un tutt’uno.

I personaggi sono franti, lo sono nelle loro identità sessuali, lo sono nella impudicizia di una fisicità etero e omo che si traduce in gioco del travestimento che è anche un po’ il travestitismo del nostro tempo. Florindo di Marco Cacciola è un elemento da Grande Fratello con le mani sempre a brandire i genitali, la Beatrice di Federica Fracassi è uno spasso lesbico e ninfomane, con quei baffetti da finto uomo che fanno sorridere, Clarice di Elisabetta Valgoi è un’adorabile isterica in cerca di marito, Silvio di Rosario Tedesco è nel suo costume settecentesco il segno della tradizione, è la memoria di un teatro in costume e descrittivo, Pantalone de’ Bisognosi di Giovanni Franzosi è emblema del padre borghese di tante comèdie bien faite e vaudeville, così come il dottor Lombardi di Annibale Pavone è un manager un po’ improbabile. Alla terrigna e procace Smeraldina di Lucia Perara Riso spetta una tirata moralistica che apre la parte più poetica ed emozionante dello spettacolo.

Così a coro gli attori incoraggiano Arlecchino a fare il famoso lazzo… E Brighella cerca la complicità del pubblico, ma non sono in tanti a pensare al lazzo della mosca di Moretti/Soleri; debole e volatile memoria del teatro! E’ qui che Roberto Latini intesse una lezione agita su Arlecchino, sull’etimologia del nome, sulla sua natura larvale che porta dritto dritto alla mosca e alla descrizione della partitura fisica di quel gioco, di quella variazione di attore inventata da Moretti, ripresa da Soleri e che Latini nella sua ricostruzione ‘a tavolino’ trasforma in danza, in corpo vibrante. L’impressione è che il teatro sia lì, nel corpo dell’attore, in quell’Arlecchino di bianco vestito che si inchina al pubblico servo, ma non asservito.

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