RENZO FRANCABANDERA | Esiste un medium per tutto. A volte non è nemmeno detto che il medium per il quale il pensiero artistico è stato originariamente immaginato sia quello in cui trova poi il maggior esito.
Mettiamo un libro, lanciato da Saviano con un’accorata recensione, impropriamente catalogato alla voce romanzo, ma in realtà silloge di racconti di natura “etnico-antropologica”, come fu definito appunto Educazione siberiana, uscito nel 2009, su L’Indice.
Il libro, per molti esageratamente romanzato, a volte lento in affreschi ambientali, ha un ritmo discontinuo che divide i lettori fra meditativi appassionati e avidi delusi. I primi attendono e si lasciano prendere dall’affresco umano, i secondi hanno bisogno di un certo realismo, di ritmo, di vorace compattezza di stile.
Escono nel 2013 due riduzioni del libro per cinema e teatro: la prima, affidata alla macchina da presa diretta da Gabriele Salvatores, di fatto riporta il regista ad una cifra avvincente, superando finalmente il tunnel techno psichedelico in cui si era infilato senza scampo. La seconda è la versione per il teatro in cui Giuseppe Miale di Mauro cuce il testo di Lilin (insieme a Lilin stesso) in una trama dal ritmo serrato, affidando il ruolo del vecchio saggio criminale, a cinema magistralmente interpretato da Malkovich, a Luigi Diberti, attore di grande consistenza che non sfigura nel paragone, regalando al suo personaggio sfumature ulteriori e sincere.
La macchina scenica è interessante: grazie ad una tapparella mobile sul fondo della stanza da pranzo della casa di famiglia che fa da ambiente principale, la regia di Miale di Mauro può di fatto rompere l’unità spaziale cui il teatro obbliga, rendendo possibile il confronto fra il dentro, immutabile e carico di storia, della famiglia del vecchio criminale “onesto” e il fuori, un mondo che con l’avvento della perestroika di fatto lascia la Russia in mano alla violenza senza speranze e senza valori guidata dalla logica del profitto.
Elsa Bossi, Pippo Cangiano, Francesco Di Leva, Giuseppe Gaudino, Stefano Meglio, Adriano Pantaleo e Andrea Vellotti sono gli interpreti impeccabili di un lavoro prodotto da tre entità stabili che più stabili non si può del teatro italiano, ovvero Stabile di Torino, Teatro Metastasio Stabile della Torscana ed Emilia Romagna Teatro.
Non si direbbe giustamente abbastanza di questo lavoro se si tacesse delle luci di Luigi Biondi: sono queste l’elemento che, a tratti più dello spunto registico puro nel lavoro sugli attori, consente all’allestimento di cambiare temperatura e intensità, sviluppando penombre e anfratti, regalando un piglio cinematografico e veloce.
Del film di Salvatores fu particolarmente apprezzata la fotografia; a teatro questo elemento di per se stesso non è apprezzabile essendo una complessa combinazione plurisensoriale di elementi scenici che comprende oltre alle luci anche i costumi (di Giovanna Napolitano). E certo mai abbastanza si riflette sul fatto che a cinema la fotografia sia una e uguale fondamentalmente per tutti i fruitori, mentre a teatro sia una (quella pensata da regista/scenografo/costumista) e al contempo tante, perché mutevole in base al posto in sala, al taglio delle luci, a dove si posa lo sguardo dello spettatore perdendosi sul palcoscenico.
In questa complessità di dentro e fuori, avanti e dietro, che la regia ben sfrutta, in definitiva, si concretizza uno spettacolo che certo non è un’alchimia di pensieri neo avanguardisti sullo spazio e sull’occasione teatrale. Ma è un prodotto compatto e coerente, che sceglie bene il suo percorso nel testo e regala al testo stesso quella continuità di ritmo che al libro forse manca, e che i medium cinema e teatro gli hanno invece regalato. Dal che può forse desumersi che Educazione Siberiana è prima di tutto, forse, una grande drammaturgia, non nata come tale, ma di fatto diventata tale, capace di dare origine a elaborati mediatici diversi, ognuno suo modo riuscito in forma brillante. Il motivo è che il conflitto fra vecchio e giovane, antichi valori e nuove ambizioni, da Lear in avanti ha sempre funzionato. E il testo di Lilin su questo riesce a creare una suggestione che arma la pistola, pardon, fa scattare la lama dei coltelli affilati dei registi.
Non è rivoluzione, ma è uno spettacolo ben fatto, un meccanismo scenico che funziona, in cui perdersi per un’ora e mezzo, tempo che passa velocissimo in un pathos sempre vivo. A volte anche tenere le perestroike fuori dalla porta, come Educazione siberiana un po’ ricorda, sia nel testo che nella regia, non è necessariamente un male. Specie se non si sa cosa viene dopo. E il nostro è il tempo delle rivoluzioni sbandate.
Alla fine, lo confesso, ho applaudito.
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