Circo SguegliaLAURA NOVELLI | I primi ad entrare in scena sono gli orchestrali: quattro musicisti che prendono posto nella buca sottostante il palcoscenico e si apprestano ad accompagnare, con un tappeto sonoro che è e dà sostanza, le dolenti acrobazie esistenziali di quei disgraziati artisti di strada che Raffaele Viviani descrive in “Circo equestre Sgueglia” (1922). Gli ultimi ad uscire di scena saranno invece i due personaggi principali, Samuele e Zenobia: clown ormai vinti dalla sorte ma ancora capaci di ricominciare, essi daranno le spalle al pubblico e, dopo aver cantato e cantato ancora, si incammineranno tra i vicoli di una Napoli crepuscolare come due Charlot dall’andatura barcollante. Tra incipit ed epilogo la cesura è forte ma inevitabile. Alla miseria – sembra volerci dire l’autore – probabilmente non c’è riscatto ma vale sempre la pena adattarsi alle capriole del destino, sperare in un domani migliore.

Opera quanto mai complessa e quanto mia stratificata nella sua partitura drammaturgica, questa “commedia in versi, prosa e musica”, sebbene negli ultimi decenni assai poco frequentata dal nostro teatro, ha preso vita la scorsa estate nel cartellone del Napoli Teatro Festival grazie alla visionarietà trasbordante e barocca di Alfredo Arias, agli arrangiamenti musicali di Pasquale Catalano e all’indubbia bravura di un folto cast dove figurano, tra gli altri, Massimiliano Gallo, Monica Nappo (nei ruoli già citati), Mauro Gioia, Tonino Taiuti, Lino Musella, Giovanna Giuliani, Gennaro Di Biase (che fa Bettina en travesti). In questi mesi, lo spettacolo gira la nostra Penisola (repliche all’Argentina di Roma fino al 23, poi Genova e Parma) e rinsalda un legame con la grande tradizione teatrale partenopea offrendone però una lettura votata a declinazioni sotto molti versi espressionistiche. L’epopea amara di questi fragili circensi alle prese con la fame, il pericolo, la mancanza di pubblico, le tempestose passioni extraconiugali che ne scompaginano l’equilibrio diventa (entrambi i protagonisti saranno lasciati dai rispettivi coniugi con sequela di disavventure gravissime) dunque lo spunto simbolico per raccontare le contraddizioni della vita tout court; e per raccontarle attraverso un varietà dei sentimenti che molto somiglia al montaggio delle attrazioni di Ejzenštejn (tornano in mente alcune sequenze del geniale filmato  Il Diario di Glumov), al grottesco di Mejerchol’d quale accostamento stridente dei contrari, di pianto e riso.

E se il regista franco-argentino non dimentica di delineare, nella sua felliniana visione d’insieme (con rimandi che vanno soprattutto a La strada), toni da farsa popolare e da commedia realista, lasciandoci gustare qualche assaggio di Commedia dell’Arte, Scarpetta, Eduardo e di sceneggiata carica di vibrazioni mediterranee e “viscerali”, tuttavia sembra prediligere la strada del cabaret di ascendenza tedesca, del café chantant, dell’opera in musica brechtiana. Ovviamente questo percorso interpretativo sospeso tra immedesimazione e straniamento gli viene suggerito dal testo stesso: basti considerare il ruolo nevralgico del Narratore che si aggira tra i detriti di questa sofferta vicenda e ne isola certi passaggi raccontandoli o cantandoli (un ottimo Mauro Gioia in frac e cilindro); ma si consideri pure il ruolo riepilogativo o esplicativo che hanno tante canzoni eseguite dagli interpreti stessi (emblematiche in tale senso le scene finali, che certo non sfuggono ad un eccesso di didascalismo), le gustose rotture della quarta parete che infarciscono la pièce e, soprattutto, la pluralità di voci, di sguardi, di giudizi che Viviani mette continuamente in gioco per parlarci di quel senso del limite, dell’essere in bilico, di quelle funamboliche peripezie quotidiane con cui tutti noi, volenti o nolenti, abbiamo a che fare.

Anche il variopinto disegno scenografico di Sergio Tramonti e le splendide luci di Pasquale Mari accondiscendono le diverse sfumature di un lavoro estremamente ricco di elementi (a tratti forse fin troppo ricco): la veduta iniziale di piazza Mercato si popola di due modestissime roulotte di legno (quella del proprietario Don Ciccio e quella di Roberto e Zenobio) che, insieme con un tendone realizzato alla buona, un cavallo di pezza dal sapore infantile, pentole, spaghetti e acqua messa a scaldare, rappresentano tutto il mondo di questi domatori, acrobati, pagliacci, giocolieri, ammaestratori sofferenti. Alla fine ci sarà un’altra veduta, un altro vicolo. Samuele (un Pulcinella ingenuo e benevolo cui Gallo offre una toccante interpretazione) e Zenobia (anch’ella anima candida affidata a un’attrice di estremo talento quale la Nappo, qui volutamente melò ma capace di scarti espressivi molto incisivi) si ritrovano dopo un anno. Entrambi soli. Entrambi affamati. Entrambi disperati. I colori sono cupi. Le canzoni hanno perso in passionalità e vigore per toccare corde malinconiche e lunari. Ma quella città così teatrale e così imprevedibile li accoglie ancora e dà loro la forza di cantare. Ancora. E ancora. E ancora.

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