fridaVINCENZO SARDELLI | «Il desiderio è quello di radunare la mia esperienza di autrice, cabarettista, attrice e regista. Mi appassiono alla vita di una donna eccezionale. La traduco sulla carta e sulla scena. Ma, incalzata dall’autenticità di Frida, mi accorgo che manca qualcosa. Inutile resistere, il qualcosa sono io e mi tocca».

Non l’avesse mai detto. Uno spettacolo su Frida Kahlo, la sua arte, la sua poesia, i suoi tormenti? Macché. Brunella Andreoli non riesce a trattenere l’ego. In presenza di un tramonto mozzafiato non frenerebbe l’autoscatto, sovrapponendo la propria effigie a madre natura.

Erano tante le aspettative per Inseparabili, pièce teatrale ispirata alla vita di Frida Kahlo, che abbiamo visto al Teatro Leonardo di Milano. Aspettative che non sembravano deluse: bella scenografia, con un’altalena-trapezio e un coreografico ramo rosso. Luce diffusa, cielo cobalto.

Gipo Gurrado centellina note misurate, mai pervasive, commento sonoro inalienabile degli spettacoli di Grock. Note come piogge, evocative del Messico. Atmosfere selvagge e calde. Mare, cielo, sabbia. Istanze sociali. Aria di rivoluzione. Ballo e poesia. Anche immagini di straordinaria bellezza, proiettate sullo sfondo: gigantografie, in movimento, dei dipinti dell’artista messicana; foto in bianco e nero, ingiallite dal tempo. Epistole. Pensieri autografi: «Cada tic tac es un segundo de la vida que pasa, huye, y no se repite. Y hay en ella tanta intensidad, tanto interés, que el problema es sólo saberla vivir. Que cada uno lo resuelva como pueda».

Tra la recitazione nivea di Gaia Barbieri e le danze leggere di Rossella Guidotti, che intercalano i monologhi di Brunella Andreoli, affiora il personaggio di Frida: ribelle, intrigante, ironica, appassionata. Determinata, su tutti e su tutto. Capace d’inseguire, con tenacia femminile, amore e arte. Sfumando nel sublime pittorico le esperienze più dolorose della vita: dal terribile incidente che la segnò a 18 anni all’abbandono dell’amato Alejandro Gòmez; dalla storia tormentata con Diego Rivera agli aborti; fino al corsetto in gesso che la ingabbiò negli ultimi anni. Sappiamo molto dell’intreccio tra vita, poesia e arte che caratterizzò l’esuberante “Frida-barra-dritta”, donna e artista trasparente, la cui iconografia si fuse con la storia e lo spirito contemporanei.

Il realismo magico dell’arte di Frida traspare dalle atmosfere dello spettacolo, attraverso le luci sopite di Claudio Intropido, con un faro-scrigno puntato in ogni direzione da una Guidotti eterea. Coriandoli luminosi e sfere colorate animano scene di giocoleria, mentre una luminaria si innalza sul palco e, spegnendosi, proietta sui dipinti dello sfondo un’ombra come un filo spinato.

Brunella Andreoli ironizza sugli aspetti paradossali della vita di Frida. Cerca di stemperare la tensione, con iniziale misuratezza. Con incursioni metateatrali nel proprio passato, nella proprie buffe paturnie esistenziali.

Tuttavia il gioco le sfugge di mano. Lo spettacolo da biografico diventa autobiografico. L’arte si trasforma in cabaret. La poesia degenera in quotidianità dozzinale, troppe parolacce gratuite.

Una serie di deviazioni pippologiche fanno deragliare la pièce. Che diventa guazzabuglio: dalla rivoluzione messicana agli spogliatoi di Pordenone o di Arcore, da Silvio a Marina Berlusconi, dalla Pascale alla cagnetta Dudù, da un ragazzotto infingardo, capelli ricci e occhi marroni, oggetto dei desideri adolescenziali di Brunella, alla ginnasta Nadia Comaneci, fino alla personale idiosincrasia per matematica e fissione dell’atomo. Il tutto affoga nell’esercizio narcisistico di parlare alla pancia degli spettatori. Si cercano l’applauso e la risata facile, accenni di comizi che neanche Beppe Grillo.

Frida teneva la barra dritta, Brunella no. Possibile che nessuno gliel’abbia fatto notare?

Non ci resta che riesumare, come esorcismo contro le esagerazioni venate di sussiego, la battuta capolavoro di Dino Risi a proposito dei film di Nanni Moretti: «Brunella, levati che voglio vedere lo spettacolo».

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