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RENZO FRANCABANDERA | La Trilogia dell’attesa della Compagnia LaFabbrica presentata eccezionalmente al Piccolo Teatro di Milano nel primo fine settimana di Maggio e poi a Roma il 6 e 7, ha avuto il pregio di consentire a chi non conosceva il gruppo romano di avere un’idea dell’evoluzione della loro proposta, per come si è sviluppata dal 2008 ad oggi.

Si tratta di tre spettacoli dedicati appunto al tema dell’attesa e sviluppati su un tessuto di aspra cupezza da attori con un sembiante anziano, ancorchè interpreti di personaggi tendenzialmente giovani.

Il primo, “Aspettando Nil” (quasi certamente abbreviazione fonica dal latino, dunque Nessuno) è la storia di una vestizione in attesa di un uomo, si suppone, una sorta di compagno della vita, o chissà cosa. Un Godot, insomma, in attesa del quale si rendono evidenti i rapporti di dominanza e crudeltà fra madre anziana e figlia zitella, interpretate da Elisa Bongiovanni e Giada Parlanti.

Il secondo, “Quando saremo GRANDI!”, è la storia di tre bambini che aspettano a scuola la madre che dovrebbe andare a prenderli, ma non arriverà. Fra loro, cattiverie, amori, eros, speranze e illusioni, come in ogni adolescenza. Ne sono interpreti Simone Barraco, Matteo Latino e Ramona Nardò, ma nella replica al Piccolo c’è stata la sostituzione di Latino da parte di Francesco Zecca.

Il terzo, infine, “Hansel e Gretel. Il giorno dopo”, con Elisa Bongiovanni, Marta Meneghetti e Giada Parlanti, è la storia di Hansel e Gretel dopo la fine della fiaba. Aspettano l’arrivo di loro padre, al quale mostrare con fierezza la vittoria sulla strega, ormai anzianissima, e che prigioniera dei due, invoca perfino la morte pur di finirla con un’esistenza senza senso.

Se in Aspettando Nil le due interpreti, sulle note di Lontano Lontano, si vestono, si lavano, si truccano, si maltrattano, aspettano e rimandano direttamente al segno del maestro Karpov e alle sue lezioni sulla significanza del corpo scenico dell’attore come veicolo del messaggio, il codice espressivo trova prossimità con quello della prima Emma Dante, con un’intensità attorale sempre molto forte, concentrata, che è comun denominatore di tutti gli elementi della trilogia.

Sono proprio la cura, il dettaglio pur nella minimalità di luci e scene, l’unitarietà stilistica e il lavoro sugli attori, le caratteristiche di maggior rilievo della proposta di questa compagnia, che è riuscita negli anni a raccogliere premi e segnalazioni.

Come forse tutti gli esordi, la loro proposta ravvicinata aiuta a leggere l’evoluzione, le domande che sicuramente la regista Fabiana Iacozzilli si è fatta, su come evolvere il linguaggio scenico e il suo personale perché teatrale.

Ecco dunque che, pur in generale intonata ad una cupezza beckettiana e senza speranze, caratterizzata appunto da attese tradite e da un senso di fine immanente e imminente, la trilogia, da un punto di partenza “dantesco” e in cui la drammaturgia e il senso intrinseco restano sostanzialmente un po’ bloccati e monocordi (cosa questa che caratterizza maggiormente i primi due spettacoli), nell’ultimo atto unico sviluppa una consustanzialità di umorismo noir e cupo grottesco che appare registro quanto mai riuscito. E sicuramente nella parodia di Hansel e Gretel, la strega costretta alla sofferenza sempiterna, o i due protagonisti all’ingrasso, che divorano la casa di marzapane e finiscono come i parenti anziani del Conte Tacchia (Panelli e Gassman), soffocati dall’edibile mentre assistono al duello, sono vette visionarie nettamente più originali di quanto visto negli altri due atti, che lasciano una sottile sensazione di già visto e di esercizi di stile vicini all’imprinting di scuola.

Nel terzo invece tutto il ragionamento sulle luci di Davood Kheradmand e Hossein Taheri, un pensiero più concreto e consapevole sull’ambiente scenico da parte di Matteo Zenardi, la figura ieratica e tragica del male che invoca la propria fine, racchiudono un elemento di novità che forse si apprezza come evoluzione del trittico, ma che si apprezzerebbe maggiormente senza passare per gli step di formazione. Certo ancora c’è un importante margine di crescita per il gruppo, forse nella direzione dell’abbattimento dei canoni di unitarietà stilistica e “ideologica”, verso un ambiente deframmentato e capace di guardare ancor più a suggestioni fuori da se stesso. A maggior ragione questo vale quando la proposta artistica viene sottoposta al pubblico in un’unica serata in tre ore di spettacolo.

E questo è sempre il dilemma delle proposte a polittico. Pur apprezzando il lavoro, la crescita, l’evoluzione, non è quello che si suggerirebbe ad un amico per una serata spensierata, diciamo così. Gli diremmo quindi di scegliere uno dei primi due, forse il primo, e l’ultimo: il secondo elemento, infatti, a qualche giorno di distanza, pur ben interpretato, ci appare concettualmente una variazione spinta al parossismo dei temi trattati nel primo. Oltre l’ora e mezza di dialogo col pubblico è bene spingersi, come a tavola, con una proposta capace di alternare maggiormente sapori e consistenze.

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