GIULIA MURONI | E’ dove le acque di Torinodanza incontrano quelle di Unione Musicale che nasce “Confluenze”, serate-evento che vedono la compresenza effettiva di entrambe le arti, in un’ottica di spettacolo/accadimento senza confini di genere. Pregevole l’obiettivo, andiamo ora ad approfondirne alcuni esiti.
Abbiamo visto “Ne parlez pas d’amour” al Teatro Vittoria di Torino. Sulle musiche del compositore Carlo Boccadoro, eseguite dal vivo dal Trio Debussy (violino, violoncello e pianoforte) i movimenti della danzatrice Daisy Ransom Phillips e dei due performer Vijaya Bechis Boll, Hervé Guerrisi, sotto la guida di Gaia Saitta. La musica, composta ad hoc da Carlo Boccadoro, notevole, è stata vivificata dall’ottima esecuzione dal vivo del Trio Debussy. Un’opera d’arte a sé stante, da sola valeva la serata.
L’azione coreografica risulta essenziale, si direbbe in posizione ancillare rispetto alla musica.
I due performer eseguono azioni semplici, prima da soli, poi in coppia, poi di nuovo da soli. Arrivati sulla scena vestiti, si spogliano e si rivestono. In questo dialogo silenzioso, di cui a tratti invero resta oscura la grammatica allo spettatore, la presenza della danzatrice Daisy Ransom Philipps e della sua qualità fisica duttile e densa dona movimento alla scena, in un ruolo di controcanto rispetto alla narrazione principale. Un’eco del ruolo di Pina Bausch in Cafè Muller. Una figura sognante, marginale e allo stesso tempo in primo piano rispetto a ciò che accade sulla scena. Ma se il lascito del Tanztheater è esplicito per quanto riguarda l’estetica e l’uso del linguaggio del gesto, non arriva altrettanto forte il segno dello slancio creativo che fu della grande coreografa, quella sua eccezionale verità nella lettura del reale, la radicale messa in gioco esistenziale e la cultura espressiva ricchissima e poliedrica.
L’esperienza forse più profondamente attorale di Saitta mostra qui ancora dei limiti nell’approccio alla profondità più coreutico performativa del linguaggio del corpo, vissuto nella sua totale padronanza e preservando la necessaria autonomia dei linguaggi, specie a riguardo di una drammaturgia in grado di dare sostegno ai segni dei corpi che, quando non completamente allocati di referenti di senso, corrono il rischio di scivolare nell’esteriorità formale. Si avverte quindi la sensazione della necessità che risulti più rafforzata l’idea coreografica che soggiace a questa creazione, di schiudere maggiori varchi di senso, correndosi all’opposto il rischio di stringersi nello spazio di una cornice estetizzante, di una danza di accompagnamento mentre ai musicisti, fissi al centro del palco, è riservato il fuoco dell’attenzione, in una ripartizione fra le parti non abbastanza equilibrata. E questo, anche a livello simbolico funziona poco. Si avverte l’urgenza di un dialogo efficace tra le due parti, di una partitura musicale che non inghiottisca i vocaboli dei corpi e di una danza che si faccia carico di una scrittura scenica realmente corale. E va anche bene se già dal titolo ci intimate “Ne parlez pas d’amour”, ma allora…Parlons d’autre chose, au moins, s’il vous plaît!