SILVIA TORANI | Ci domandiamo che senso abbia oggi assistere a uno spettacolo come La bella addormentata nel bosco, al Teatro dell’Opera di Roma fino al primo giugno. È solo uno status symbol? Una conferma autoreferenziale della nostra identità culturale? Un recupero nostalgico di un passato che non c’è più? Perché in questa versione del 2002, da allora riproposta ciclicamente ogni due, tre anni, il coreografo Paul Chalmer non si allontana dall’imponente e magnifica ombra di Marius Petipa?
Non siamo ancora stanchi dei principi stranieri stereotipati, con la pelle di leopardo sulla schiena seminuda? Delle principesse adolescenti, ingenue e fiduciose? Vogliamo ancora vedere teli trasparenti che calano atmosfere oniriche sul palco?
Eppure altre strade si sono tentate. Conosciamo l’Aurora disagiata e ribelle di Mats Ek, punta dal fuso della droga per cadere preda di un sonno senza sogni; ricordiamo le tinte gotiche della Belle di Jean-Christophe Maillot. Ma il problema delle rivisitazioni contemporanee è che spesso non ci dicono molto di più, non aggiungono latenze che non fossero già presenti nell’originale. Senza allontanarci dal canone del balletto classico, perfino un lavoro poetico, scanzonato e ironico come Swan Lake, della giovanissima (e bravissima) coreografa sudafricana Dada Masilo, in scena al Teatro Argentina lo scorso novembre, rende esplicite tensioni omosessuali già insite nell’amore “diverso” che porta il principe a rifiutare le belle pretendenti cui i genitori lo vorrebbero fidanzato per inseguire la chimera di un cigno.
La moda delle attualizzazioni, interessanti se intelligenti, e pur sempre lecite, rischia di togliere tutto il piacere al pubblico, la soddisfazione di leggere tra le righe, di costruirsi la sua storia, di andare oltre quell’apparente banalità del visibile. Certo, resta il piacere della danza. Ma quello rimane anche nel più classico dei classici.
L’Aurora delle prove generali è dolce, a tratti leziosa. Incerta nel difficile Adagio della Rosa, recupera durante il grande passo a due del terzo atto, preceduto da una sfilata esemplare di tecnica e virtuosismi: alcuni personaggi mancano, ma le ottime variazioni della principessa Florine e dell’Uccello Blu, della fata Diamante e delle sue compagne riescono a compensare la debolezza di un secondo atto un po’ fiacco. Degno di nota il vivace pas de caractère dei due gatti.
Mentre l’uso uniforme delle luci non valorizza abbastanza i passaggi coreutici e narrativi, costumi e scenografia ben caratterizzano i ruoli mimici dei cortigiani e della strega Carabosse, antagonista fiera e convincente nella sua intensa gestualità, moltiplicata come in un incubo dall’espressivo corteo infernale dei corvi.
L’allestimento potrà forse essere lo stesso di dieci anni fa, la coreografia simile a quella del secolo scorso, ma di certo non stiamo assistendo allo stesso balletto di allora. Non esistono ricostruzioni filologiche neutre, perché il passato non si resuscita e nessuna rievocazione di esperienze potrà mai dirsi assoluta: possiamo imparare tanto della vita di un falsario dal modo in cui crede di riprodurre fedelmente lo stile di un capolavoro.
La différence, il senso, è nell’incontro tra le storie, tra le persone: ballerini, scenografi, costumisti, tecnici, spettatori. Perché le persone eccedono ogni schema.
[…] Se i classici hanno ancora ragione d’essere […]