SinisiANDREA CIOMMIENTO | Il teatro è sempre occasione per rifondare il senso sociale di appartenenza di una comunità. Collinarea Festival si è consacrato da quest’anno motore essenziale e simbolo di questa tensione.

Un tentativo politico che si riversa anche sulle scelte in cartellone, e nel caso del nuovo lavoro di Michele Sinisi queste scelte si distanziano dall’idea di spettacolo approdando alla performance. Un lavoro che ha lasciato la comunità festivaliera di Lari piacevolmente disturbata nel suo ascolto.

Come potremmo giustificare il tentativo, anch’esso politico, di Riccardo III prodotto da Teatro Minimo e Pontedera Teatro? La performance è un progetto scostante e maleducato che lede la pazienza del pubblico. Il tentativo dell’attore è chiaro: sollecitare quella comunità che lo accoglie, rischiare spezzando l’immagine che si ha di lui. Il risultato è stato raggiunto ovvero affondare le mani in un terreno più minaccioso in scena, senza intreccio drammaturgico e in una relazione sfacciata con lo spettatore.

Il Riccardo III che hai presentato a Collinarea vive di un’atmosfera punk al contrario del precedente Amleto che vive di un proprio sviluppo drammatico comprensibile a tutti…
Tutto è partito da una sfida ovvero l’idea di lavorare al di là della “parola che significa”. Ritornare indietro alle suggestioni, ai piaceri e alle scommesse di questo lavoro, tornare a una curiosità di linguaggio verbale di pancia, prendere solo il testo di Shakespeare e farne farne uno spettacolo che tenga non più di quarantacinque minuti. Ho deciso di lavorare non sulla comprensibilità logica e drammaturgica tradizionalmente intesa ma su dei segni per far sentire la realtà di Riccardo III senza raccontarla.

Ci sei tu insieme a un indelebile e a uno spray di colore rosso utilizzati per imprimere immagini e parole scritte sul ferro zincato. L’esperienza che ne facciamo è olfattiva e visiva al tempo stesso…
Il colore così come il ferro zincato del tavolo, la maglia, il microfono e i puntelli li ho utilizzati per raccontare una spinta di pancia dal punto di vista emotivo e rituale, intellegibile nell’immediatezza ovvero il superamento del disegno con lo stencil che svuota il percorso e la memoria presentandone i passaggi più evidenti del figurativo contemporaneo.

Che obiettivi ti sei dato?
Riuscire a lavorare su dei segni che appartengono a una memoria comune, giocare sull’assemblaggio di questo linguaggio che definisco popolare, figlio di questo tempo sezionato e rimontato rispetto al rapporto della tv e del cinema o adesso della rete, e capire quanto evolve un linguaggio e quanto riproporlo in scena come uno spaccato.

Perché usare Shakespeare per entrare dentro il sangue?
Riccardo III è una fascinazione attoriale. C’è l’idea di interpretarlo. Ho deciso di partire da qualcosa che rappresenta l’archetipo e l’artificio, la sua deformità per cominciare a sciogliere chimicamente questa idea, questa immagine di Riccardo che abbiamo, questo cliché per certi versi, e cominciare ad abbassare sempre più il risuonatore dell’immaginazione al punto di renderlo viscerale. Lo shock continuo in scena è l’equivalente che noi proveremmo se solo avessimo a che fare con una vita vissuta in quel modo. Riccardo è disposto a tutto pur di raggiungere il potere. Nel mio caso il potere di tenere il pubblico.

Estratto video dall’intervista con Michele Sinisi:

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