RENZO FRANCABANDERA | A teatro, c’è spessissimo il bailamme, il tanto, il troppo, spesso l’inutile. E poi i lavori che segnano le stagioni e restano impressi per linearità, elegante e coerente persistenza di sè. Capita così di assistere in pochi giorni e in due piazze diverse a due allestimenti di testi classici: Intrigo e amore di Friedrich Schiller (adattamento e regia Lev Dodin) al Piccolo Teatro di Milano, di cui parleremo prossimamente, e Alcesti di Euripide (traduzione e adattamento Massimiliano Civica) nell’ex carcere delle Murate a Firenze che ci hanno regalato emozioni rare.
Ciò che lega questi due allestimenti e che spinge alla riflessione è la capacità di rendere con grande forza un’idea registica che rimane coerente e trasporta lo spettatore in un silenzioso e meditativo pathos, vera potenza del teatro, quando il teatro sa essere potente.
Lo spazio scenico di Civica è ricavato all’interno di un cortile al piano terra della ex struttura carceraria, un cortile in realtà chiuso, coperto, e delimitato, in forma di semi-ottagono (anche se l’occhio si perde in un semi decagono), con cinque pareti che si sviluppano in alto su più piani con affacci di balconate. L’ora scelta è quella del tramonto di inizio autunno, fuori imbrunisce. Dentro la luce che accoglie gli spettatori (Gianni Staropoli) asseconda questa scansione del passaggio dal diurno al notturno, e pare accogliere lo spettatore alle soglie dell’Ade.
I venti spettatori ammessi per sera si trovano davanti ad uno spazio quadrato di cinque metri per cinque di poco sopraelevato, di colore azzurro abbastanza neutro e un fondale di identico valore tonale, tendente al grigio.
Ai lati due piccoli comodini, quasi che si fosse entrati in una stanza da letto, se non fosse per il fatto che sul palco campeggiano due enormi portaceri liturgici dorati, alti quasi un metro e mezzo, colonne d’Ercole fra la vita e la morte, e in realtà uscio della casa di Admeto, il marito di Alcesti, per la sopravvivenza del quale lei si immola, abbandonandosi alla Morte, che va a prenderla, gettando la casa nel cupo sconforto. Il testo euripideo, quarto di una tetralogia di cui doveva rappresentare la parte satiresca, in realtà resta potentemente drammatico per la gran parte della vicenda, diventando fiabesco e leggero nel finale, quando l’arrivo del semidio Ercole, regala il lieto fine.
Quali sono le scelte registiche e per quali ragioni si fanno apprezzare?
Massimiliano Civica sceglie un rapporto di grande rispetto per questo classico, di cui ha evidentemente indagato profondamente la struttura logica e di senso, decidendo di affidarne l’interpretazione a due interpreti mascherati sul palcoscenico (Daria Deflorian nella parte, tra gli altri, di Apollo, Admeto, un servo, e Monica Piseddu nella parte, tra gli altri, di Alcesti, Eracle, un servo, il padre di Admeto) più una terza interprete (Monica Demuru) fuori dal perimetro del palcoscenico vero e proprio, con il ruolo di coro e col volto non coperto da maschera.
L’obiettivo di mantenere i soli tre interpreti ha dovuto evidentemente cedere nel finale alla necessità di una terza figura in scena, che si aggiungesse al duo Deflorian-Piseddu, chiedendo quindi una comparsa finale a Silvia Franco per consentire il ritorno fisico di Alcesti dall’Ade.
Funzionale a questo gioco registico pulito ed essenziale sono le scelte su costumi e maschere. Sarebbe infatti monco qualsiasi resoconto di questo allestimento che non ponesse il dovuto accento sull’elemento della vestizione e del cambio di abiti e di maschere cui la Deflorian e la Piseddu attendono con lentezza e rigore di movimenti, in un silenzio davvero da camera ardente, rivolgendosi ciascuna al piccolo comodino (di legno a base quadrata, come da tradizione fino alla metà del Novecento). Il gioco di costumi studiato da Daniela Salernitano è essenziale, e consente a ciascuna attrice di cambiare personaggio con delle cinture di stoffa di ispirazione quasi orientale e a chiusura con annodatura posteriore, e pochi altri oggetti. Coprono il volto delle due attrici le notevoli maschere di Andrea Cavarra, come noto artista legato all’universo della commedia dell’arte e che propone infatti una declinazione della maschera molto più vicina a quella della tradizione italiana fra Sei-Settecento che a quella del teatro classico. Le maschere realizzate, infatti, sono prive della parte dal naso in giù, quindi non coprono la bocca, ma in realtà risultano un elemento scenico cruciale perché estendendosi nella parte delle guance verso il basso, di fatto impediscono la mimica facciale praticamente in toto.
Questo impedimento pare suggerire a Civica un’impostazione del movimento degli attori in scena minimale, quasi nullo, fatto di passi piccoli, da gheisha, se l’immagine può rendere l’idea. Le attrici non gesticolano in alcun modo e anzi recitano per buona parte del tempo con le braccia lungo i fianchi.
E’ dunque cruciale il pathos che si genera fra parola e silenzi, negli intervalli sapientemente creati attraverso le lente vestizioni delle due interpreti, che scendono dal piccolo quadrato del palcoscenico per recarsi ai vicini comodini, togliere le maschere per indossarne altre, e ritornare nello spazio dell’azione.
Ai bordi del palco si muove con più libertà ma con misura la Demuru, di cui Civica sfrutta tutto il consolidato repertorio di abilità vocali per restituire un’idea di coro, capace di essere controcanto pieno, di parola e di suoni, rispetto a quanto accade in scena. Proprio questa lacerazione potente fra silenzi, parole e lai, inizia ben presto a creare una circolarità vorticosa di cui il pubblico è finanche parte, non fosse altro in ragione della disposizione e della prossimità che ha in sala.
Come si è cercato di spiegare, nulla è lasciato al caso, all’improvvisazione, neanche la scelta di moderare il tragico e rendere il satirico fiabesco con il ricorso al dialetto (sardo e veneto-trentino, terre di origine delle due attrici sul palcoscenico e forse rimando più diretto alla commedia dell’arte, di cui si è fatta ipotesi in precedenza, nel racconto dei personaggi dei servi, anche se qui i motivi dei rimandi appaiono meno istantanei e logici); un ricorso al popolare che poi diventa più slabbrato con l’ubriachezza di Eracle che si abbandona al desiderio fisico intonando canti da osteria, come l’Uselin de la comare.
Sono tuttavia pochi (forse necessari, proprio perché filologicamente non di tragedia ma di spazio del satiresco stiamo parlando nel caso di Alcesti) e distinguibili segni, che restano comunque coerenti con l’impianto generale pulito che Civica sceglie per questa operazione, di cui risulta chiara la riuscita complessiva, nella sostanziale coerenza delle scelte sceniche, dalle luci, ai costumi, alle maschere, fino al notevole lavoro delle donne in scena, che contribuiscono ognuna con la propria fisicità, la propria voce, e il proprio sembiante mascherato ad una visione che resta impressa.
Lo spettacolo resterà in scena presso l’ex carcere delle Murate, in Piazza Madonna della Neve 8 a Firenze fino al 26 ottobre ospitando venti spettatori a sera. Al momento non è prevista alcuna tournée italiana, scelta per certi versi sorprendente, ma tant’è. Certamente, per chi può, è uno spettacolo da (andare a) vedere. Assolutamente.