Gabriele Benedetti @ Ilaria Costanzo
Gabriele Benedetti @ Ilaria Costanzo

MATTEO BRIGHENTI | La poesia è la rivolta sterile di un clown. La libertà è un bambinone che ha perso la mamma. L’amore perduto è un pupazzo senza vita. Tre spettacoli, Io Cinna e Io Calibano di Accademia degli Artefatti, …di Giulietta e del suo Romeo di Progetto Brockenhaus, tre riscritture di Shakespeare che hanno l’intenzione di parlare dei nostri giorni dando voce ai personaggi minori, facendo leva su figure secondarie e comprimari per sollevare nuove questioni, moderni punti di vista su vicende altrimenti note e stranote.

Io Cinna e Io Calibano, visti entrambi a Contemporanea Festival di Prato, sono due episodi della serie I, Shakespeare che Fabrizio Arcuri desume dai ritratti che Tim Crouch ha fatto del Cinna di Giulio Cesare e del Calibano de La Tempesta.
Un salotto in legno, sedia, poltrona e televisore sulla sinistra, un piedistallo e una teca con dentro un coltello sulla destra e uno schermo da proiezione sul fondo sono gli elementi che costruiscono lo spazio scenico di
Io Cinna.
Gabriele Benedetti è un poeta randagio uscito da un pub di Londra il venerdì sera. Cerca di ricostruire un sogno che ha fatto, al cui ricordo è condannato: l’omicidio di Cesare e il suo, per il destino di avere lo stesso nome di uno dei cospiratori. Benedetti porta con sé l’evoluzione spaurita della poesia, un potere di parole afone su cui istruisce il pubblico, quasi a voler costruire insieme un alfabeto della resistenza di chi non viene ascoltato. Con carta e penna consegnateci all’ingresso ricostruiamo sotto dettatura la sua storia e poi, in 3 minuti stavolta di libertà, scriviamo la sua morte, così da renderla, possibilmente, migliore.
Sullo schermo passano manifestazioni, scontri, il Rivoltoso Sconosciuto davanti al carro armato in piazza Tienanmen, altri tempi che non diventano questo, dove il vessillo di Roma è la bandiera della Roma e la marea montante degli ultimi è una ciondolante rottura della quarte parete che chiede verità al pubblico e poi non sa che farsene, perché conosce solo la finzione più remissiva.

Fabrizio Croci @ Ilaria Costanzo
Fabrizio Croci @ Ilaria Costanzo

La scena di Io Calibano è un telo bianco lucido per terra ingombro di oggetti, animaletti gonfiabili, ciambelle, rastrelli, libri, valigie, mentre il fondale è trasparente: l’isola di Prospero è l’immondezzaio della camera da letto di un adolescente.
Fabrizio Croci è il mostro Calibano in bermuda militari, cappello da cowboy e ciabatte. Fa la cacca, perché la mamma, la strega Sicorax, gli ha detto che “la tempesta è come fare la cacca” e poi parla con gli animaletti e gli spettatori della sua bruttezza e della voglia di incontrare carnalmente Miranda per dar vita a una nuova razza. Temi come la difficoltà di praticare la libertà, che quando non ce l’hai la cerchi e quando ce l’hai ne abusi, sono bofonchiati, strascicati, hanno l’alito pesante di chi ha bevuto troppo, non si regge in piedi e farnetica.
Croci sembra capitato in palcoscenico per caso, lasciato solo a sopravvivere a
La Tempesta, che rivive come una battaglia navale, si bagna, si tuffa a destra e a sinistra e il Boss è Prospero, ma anche Springsteen. “Questa tempesta è stata una cagata”, afferma sornione, e dopo si tira addosso altra cacca e con la poca rimasta schizza sul fondale uno stivale, l’Italia. Il parallelo con l’oggi è uno sguaiato cabaret da tv generalista.

di Giulietta e del suo Romeo di Progetto Brockenhaus, visto a Zoom Festival di Scandicci, è la tragica storia di Romeo e Giulietta travisata da Donna Capuleti (Elisa Canessa), dalla Balia e Frate Lorenzo (Federico Dimitri, che firma anche la regia) e dalla chitarra dal vivo di Antonio Ghezzani. I due giovani innamorati sono impersonati da due fantocci, presenze ammutolite, annientate da un destino già scritto, che la messinscena non può far altro che confermare, se vuole raccontare la loro storia.
Si comincia, di nuovo, con un sogno: Donna Capuleti vede la casa infestata di topi Montecchi. E onirico è l’alone che ricopre tutto lo spettacolo, un circo dark costruito su un immaginario gotico da festa di Halloween. Come Frate Lorenzo, un rocker indiavolato che insegna l’amore dietro il chiodo, gli occhiali da sole e la voce urlata nel microfono. I pupazzi di Romeo e Giulietta paiono sorridere imbarazzati: “ma tu guarda cosa ci fanno fare”.

A ben vedere, è il Bardo stesso che fa la fine del fantoccio: Accademia degli Artefatti e Progetto Brockenhaus lo strattonano così forte da smarrire il senso e la direzione delle sue parole. E i personaggi non sono chi dicono di essere perché gli attori stanno sul palco, ma non sono presenti alla scena, non sono mossi da un’idea, fanno cose, cose e basta.
Io Cinna, Io Calibano e …di Giulietta e del suo Romeo sono quindi tre Shakespeare riscritti con ammiccante superficialità e un pensiero solo e fisso in testa: calcare il ‘contemporaneo’ sulla carta carbone di un ‘classico’ specchietto per le allodole.

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