UnknownLAURA NOVELLI | Una città ruvida, arrabbiata, intollerante, violenta, degradata. Una città che pullula di malesseri, storture, ambiguità. Una città misteriosa, notturna, respingente. Eppure sempre e disperatamente bella. Di quella bellezza antica e un po’ ruffiana che ti strega e ti imprigiona, ma che oggi fa fatica a nascondere le sue macerie. Roma come emerge dalla complessa materia drammaturgica di Ritratto di una capitale, spettacolo-fiume ideato da Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri e andato in scena al teatro Argentina nei giorni scorsi, è un vero e proprio pugno allo stomaco. Un coacervo di contraddizioni che le diverse ventiquattro scene scritte ad hoc da altrettanti autori (cui si aggiungono i contributi di Corrado Augias, La capitale mancata, e Franca Valeri, L’insaziabile imperatrice) declinano in immaginari e linguaggi assai diversi, accomunati però da un diffuso senso di disfatta, cedimento, catastrofica decadenza.

E se da una lato tale esito non era ovviamente prevedibile in fase progettuale, dall’altro esso ci suggerisce una constatazione importante, e cioè che di questo pugno allo stomaco forse avevamo tutti bisogno. Per meglio comprendere, come cittadini, una realtà che ci tiene volentieri sospesi tra abitudinaria sopportazione e sentimentale utopia e per confrontarci, come spettatori, con la molteplicità di uno sguardo letterario capace di tradurre quella stessa realtà in una suggestione artistica coesa, in un respiro unico, in un “sovratono” significativo.

Ovvio che in dodici ore di spettacolo (tanto è durata la lunga maratona programmata il 22 novembre che, scandita in blocchi di circa due ore ciascuno al termine dei quali era possibile entrare in sala o uscirne, ha messo insieme la prima e la seconda parte del lavoro favorendo un’esperienza di visione personalizzata) ci siano momenti meno felici, brani meno incisivi, tematiche ripetute, tentazioni bozzettistiche, cedimenti del ritmo o della teatralità, ma queste criticità “fisiologiche” non compromettono la riuscita di un’iniziativa davvero coraggiosa. E non parlo di coraggio puramente produttivo. Parlo semmai del coraggio di accostare autori molto distanti tra loro come, tra gli altri, Giancarlo De Cataldo (Bello come un Dio), Eleonora Danco (Squartierati), Elena Stancanelli (Angeli Cacacazzi), Ascanio Celestini (Kiss Me), Francesco Suriano (Elegia per due sconosciuti), Letizia Russo (Crossroads), Tommaso Pincio (Il film sbagliato), Fausto Paravidino (Flaminia bloccata), Anna Foa (Il ghetto, monologo con fantasmi), Andrea Rivera (Scritti Corsarivera), Emanuele Trevi (Opinioni di una zanzara tigre a Roma), Ricci/Forte (Raw, Reluctant and Rome), Timpano/Frosini (Alla città morta).

Parlo del coraggio di puntare su una regia semplice, sobria ma limpidamente efficace (a firma dello stesso Arcuri), messa a servizio di folgorazioni drammaturgiche affidate tanto ai testi quanto all’importante colonna sonora dei Mokadelic (gruppo post-rock/psicadelico noto soprattutto per aver scritto le musiche della serie tv Gomorra) e all’avvolgente set virtuale di Luca Brinchi, Roberta Zanardo (entrambi dei Santasangre) e Daniela Spanò.

Unknown-1Parlo poi del coraggio di impegnare un cast numerosissimo, mescolando (anche qui) attori di generazioni e formazioni diverse, nomi conosciuti (da Anna Bonaiuto a Sandro Lombardi, da Leo Gullotta a Milena Vukotic, da Danilo Nigrelli a Maddalena Crippa) e personalità artistiche più acerbe o, in alcuni casi, più inclini ad una attorialità autoriale costruita su una lingua espressiva propria e ben riconoscibile (basti citare la Danco o Rivera). Sebbene in alcuni casi la resa interpretativa non sia del tutto convincente, c’è da dire che l’insieme, la coralità di queste voci, ora impastate di dialetto, ora di cadenze giovanilistiche, ora di ombreggiature straniere, restituisce in pieno l’atmosfera di una Roma indurita, losca, provinciale, smarrita.

Sono infatti i temi della prostituzione, dell’intolleranza razziale, del degrado periferico, della violenza notturna ad attraversare la maggior parte dei contributi (montanti secondo la scansione cronologica di una giornata). Non di meno, però, è nella poesia di certe vibrazioni che si insinua lo struggimento più forte e caparbio. Alludo, per esempio, allo splendido brano della Stancanelli, fatto volare alto da un Sandro Lombardi in stato di grazia e da un misurato Roberto Latini: due angeli persi nel vuoto di un luogo-non luogo che (forse incarnazioni poetiche di Victor Cavallo e del ballerino Lery Johnson) inciampano nel loro passato, confondono la vita e la morte per poi scivolare altrove, scendendo dentro la botola che si apre al centro del palcoscenico. E sospeso nel mistero resta anche il tremore della donna che la Bonaiuto interpreta con pregevole mutevolezza espressiva in Odioroma di Mariolina Venezia, così come si muove in raffinate alchimie linguistiche e storiche il bel testo di Suriano, ambientato sulle sponde lunari di un Tevere minaccioso. C’è poi la Roma delle baby-squillo raccontata da Celestini, quella degli ingorghi gravidi di dis-umanità immaginata da Paravidino, quella baldracca e scandalosa di Ricci/Forte, quella violata dall’antisemitismo della Foa, quella nostalgica e popolare della Danco.

C’è, ancora, la Roma delle periferie incazzate, dei centri SerT, degli anziani soli, dei romani che hanno lasciato la capitale ma ci tornano. E infine c’è la città morta, quella gravida di macerie, detriti, residui catastrofici, toni acidi che – siamo alla chiusura di Timpano/Frosini, apocalittici epigoni della loro stessa Zombitudine – finiscono col contagiare anche la versione rock di Arrivederci Roma suonata dai Mokadelic. Un pugno allo stomaco, sì. Ma anche un’opera che possiede la forza di “un’operazione” culturale (prima che teatrale) importante. Non è più tempo di commedie buoniste e sornione. L’Italia è altro (e mi viene in mente il bel film di Salvatores Italy in a day). Roma è altro. Lo dice bene Franca Valeri nella sua epistola d’apertura: garbata, ironica, sarcastica visione di una città eterna (ripresa video sulla home-page del sito www.teatrodiroma.net) in cui le statue parlano di gloria passata, mentre le strade dissestate e sporche di oggi gridano uno scempio ormai osceno. E neppure la nostalgia può bastare a consolarle. E a consolarci.

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