GIULIA RANDONE | In principio fu una storia d’amore. All’inizio del Duemila, Amir Reza Koohestani era un giovane innamorato e un drammaturgo sconosciuto al di fuori dei confini della città natale di Shiraz. Quando la relazione finì, reagì alla perdita scrivendo una pièce sofferente e arrabbiata, che aveva per protagonisti un ragazzo e una ragazza, che si fronteggiavano dalle estremità di un lungo tavolo. Il successo di Dance on Glasses (2001) aprì a Koohestani le strade del mondo e delle collaborazioni internazionali e per lungo tempo rimase lo spettacolo con il quale il drammaturgo e regista iraniano veniva identificato.

Timeloss_fotocorrettaDodici anni dopo, Koohestani si confronta insieme al Mehr Theatre Group con quell’opera giovanile, divenuta un “oggetto del passato”, il residuo di un’epoca della vita perduta per sempre. Timeloss, visto a novembre al Théâtre de la Bastille di Parigi in occasione della 43° edizione del Festival d’Automne, muove da una circostanza immaginaria per tornare a parlare di amore e separazione con uno sguardo diverso, più adulto, più incerto e pessimista. Il pretesto è offerto dalla fittizia realizzazione del DVD di Dance on Glasses e dalla necessità di correggere la registrazione sonora dello spettacolo doppiando la voce degli attori originari.

Sulla scena buia, un uomo e una donna tra i trenta e i quarant’anni siedono ciascuno al proprio tavolo rivolti al pubblico, imprigionati in due quadrati di luce, in uno spazio che non abbandoneranno mai. Ripassano le battute di Dance on Glasses intrecciandole progressivamente con un dialogo dal quale capiamo che, oltre ad avere interpretato all’epoca il ruolo dei giovani protagonisti in procinto di separarsi, sono stati a loro volta una coppia. Lo scambio tra i due è denso, talvolta affannato, talvolta sospeso nei silenzi e nei non-detti di un passato comune di cui non sappiamo nulla. Oltre metà della conversazione è affollata da interrogativi che non trovano risposta. Anche la domanda “perché ci siamo lasciati?” innesca uno scambio di ricordi confusi e divergenti. Si intuisce che l’uomo confida nel ritorno di lei, immaginandola, in qualche misura, ancora sentimentalmente coinvolta.

Nella drammaturgia a scatole cinesi di Timeloss, il concetto di “ritorno” è declinato in molti modi, anche giocando con la polisemia del termine, come nel caso del “ritorno audio” del video che gli attori in scena sono chiamati a doppiare. Interagendo con la voce off del regista, i due chiedono infatti di riascoltare le proprie voci giovanili per poter ritrovare l’emozione che allora li animava. Accade allora che due schermi che incombono sulle loro teste si accendano e proiettino alcune sequenze di Dance on Glasses, mostrando da vicino il volto e il corpo dei giovani protagonisti. Da questo momento le presenze sul palco si moltiplicano. La scena si trasforma in una vertiginosa, e non più solo testuale, mise en abyme, in cui gli attori invecchiati guardano se stessi recitare dodici anni prima le medesime battute o, addirittura, si sdoppiano e compaiono anch’essi sullo schermo, in una impossibile interazione con i loro alter ego giovanili. Man mano che lo spettacolo prosegue si intuisce che il lavoro a cui sono chiamati oggi i due attori – adattare le proprie voci ai corpi di ieri – è destinato a fallire. Non perché essi non siano in grado di riprodurre, fingendo, un’emozione passata, ma perché su tutto lo spettacolo, pur non accadendo nulla di tragico, aleggia un’atmosfera di cupa irreparabilità.

Il clima di tensione che emerge da questa conversazione a più voci mantiene la performance in bilico tra quotidianità e sogno, tra discussioni ordinarie e allusioni alla morte. Timeloss mi ha ricordato Diario di un dolore di C.S. Lewis, opera in apparenza distante ma che tematizza lo stesso senso di perdita e smarrimento. Il libro indaga la reazione dell’autore alla morte della moglie: dalla malattia al distacco traumatico, dall’amore quotidiano al ricordo che l’azione del tempo – per Lewis “uno dei tanti nomi della morte” – offusca. “Mi dicevo proprio stamattina che ho dimenticato il tuo volto”, dice sul palco l’attore all’attrice; “Non riesco nemmeno più a vedere distintamente il suo viso”, si dispera Lewis, e poi aggiunge “pensavo di descrivere uno stato, invece ho scoperto che il dolore è un processo. Non gli serve una mappa, ma una storia”. Che per descrivere amore e dolore non serva una mappa, ma una storia, Koohestani lo sa bene. I suoi protagonisti non sono immersi in una geografia ma si muovono lungo il tempo, in un itinerario di rimemorazione e ripetizione perenne. Una condizione dinamica – un “processo”, per dirla con Lewis – che Sāl Gashtegi, titolo originale persiano di Timeloss, mette in luce: tradotto alla lettera significa infatti “cercando nel tempo”.

Accomunate dalla necessità umana e artistica di esperire un processo, le creazioni dei due autori approdano tuttavia a visioni divergenti della morte. “Ritorna! Ma non mi è mai venuto in mente di chiedermi se un tale ritorno sarebbe un bene per lei. Io la voglio come ingrediente della restituzione del mio passato. Potevo augurarle qualcosa di peggio?”, si domanda Lewis. Dal canto suo Koohestani non condanna così severamente la propria quête, poiché nutre fiducia nella possibilità di un dialogo con i fantasmi. Lo spettacolo è incorniciato da un prologo e un epilogo nel quale una voce fuori scena evoca il personaggio femminile di Dance on Glasses affidandogli il compito di una catabasi: “Vorrei che tu fossi Orfeo e che andassi a cercare la mia Shiva nel regno dei morti. Chiudo gli occhi e conto, fino a quando Shiva tornerà in vita”. Ma il mito, sulla scena, si complica e confonde. L’uomo che siede in posizione arretrata rispetto alla donna le chiede a un certo punto di voltarsi, di guardarlo finalmente negli occhi. La donna però, un Orfeo che continua imperterrito a fissare la platea, non si volterà mai, condannando entrambi a un limbo doloroso. Nell’epilogo, poi, la voce off si volge indietro nel tempo a una ragazza diciottenne, forse la giovane di cui Koohestani fu davvero innamorato. Lei attende all’ingresso di un cinema, in un Iran non ancora gravato dalle sanzioni che, a partire dal 2007, renderanno difficile l’acquisto di farmaci salvavita. “Se sei ancora là, comincia a raccogliere le pillole contro la sclerosi multipla”.