FRANCESCA DI FAZIO | Toni il pitur. ‘Ntoni il matto. Antonio il naïf. Laccabue rinominato Ligabue. Anton lo svizzero. L’orfano. Il senza casa. Il solo. L’artista. Ci sono tutte le anime di Antonio Ligabue nell’intensissimo “gran finale” del Progetto Ligabue di Mario Perrotta, materializzatosi nei luoghi dove il pittore ha vissuto: Gualtieri (il Fiume), Guastalla (la Città) e Reggio Emilia (il manicomio). Un progetto di ampio respiro, che ha coinvolto circa duecento persone tra artisti e addetti, che soprattutto ha coinvolto le popolazioni di quei luoghi, rendendole partecipi della restituzione di un pezzo della loro storia. Gli abitanti hanno, con i loro racconti, aiutato a ri-abitare i luoghi del Toni, a ricostruire la sua figura di uomo e di artista: interessantissima in tal senso la visione del documentario “La Terra, il Fiume, il Toni. I luoghi e la vita di Antonio Ligabue” con Mario Perrotta e le testimonianze e le affascinanti letture dell’opera di Antonio Ligabue di Gian Luca Torelli, custode del museo dedicato al pittore.

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Percorso Città
Uno straniero che parla solo tedesco arriva in città, guardato con scherno e diffidenza dagli abitanti del posto. È il Toni, Anton, lo svizzero. Quello espulso dal suo paese d’origine perché denunciato dai genitori adottivi. Quello che il padre non l’ha mai riconosciuto, quello che la madre lo affidò ad altri genitori dopo averlo partorito. Quello che gli altri genitori l’hanno espulso. Arriva, alle soglie del ventennio fascista, di anni duri, premonitori di fuoco di guerra. Da qui lo seguiamo attraverso gli anni e attraverso meravigliosi luoghi delle due piccole città, Guastalla e Gualtieri, che non l’hanno saputo accogliere. Perché Ligabue bosco era, natura, bestia. Lontano dai paesaggi urbani sentiva la sua anima di sostare. Da qui percorriamo quei luoghi che ha sfiorato, senza lasciarsi trattenere. Percorriamo le piazze di Guastalla invase dai tedeschi, che su pullman turistici modello 2014 e suoni registrati di sirene ci portano a Gualtieri, e dopo il viaggio la guerra è finita. Sono gli anni del boom economico e al meraviglioso Teatro Sociale di Gualtieri, piccolo gioiellino settecentesco, vediamo il Toni vivere la comparsa del cinematografo e sognare attraverso i film d’avventura ambientati nella giungla, che tanto lo affascinava. Non vediamo solo il Toni: con e contro di lui ci sono sempre gli abitanti che non lo comprendono, che al cinema lo zittiscono quando imita il verso degli animali, che gli ballano intorno con intense e sconnesse coreografie (curate da Mario Coccetti) in una danza urbana che lo esclude e spaventa. Arriviamo all’anno 1951, l’anno del dramma della piena del Po che invase con le sue acque tutte le città della bassa reggiana, a cancellare ogni differenza tra paesaggi cittadini e campagne. Il racconto della piena è affidato ad un intenso monologo che grazie all’interpretazione di Lorenzo Ansaloni (interprete del Toni per il Percorso Città) tiene sospesi, avvince, emoziona.

Percorso Fiume
la Golena del Po, l’argine che l’ha accolto. Qui nel ’20 Toni iniziò a dipingere. Dipingeva natura con natura. Usava l’erba per il verde, la terra per il marrone, i fiori per i colori e con l’argilla scolpiva. Mangiava quello che gli capitava, quello che il bosco gli offriva. Era il re del bosco. Lì visse solo, in voluto isolamento, in ricercato silenzio. Ma quelle giovani coppie di amanti…nel bosco vediamo apparire una danza di paese, un rincorrersi di giovani ragazzi, un inno all’incontro dei corpi. Ci sono anche le meretrici del paese, quelle che non rifiutano nessuno. Perché invece lui doveva rimanere solo? Perché sua mamma lo aveva cacciato via? Perché l’hanno sempre tutti emarginato? A lui basterebbe una donna, una carezza, una tenerezza. Un bès. Ma il suo cuore era troppo tenero, per trovarne un altro come il suo. Allora lì deve restare, tra le bestie, perché bestia lui stesso. È aquila, è leopardo, con quel muso irregolare, animalesco. Tali e altre parole le sentiamo provenire da una lontana chiatta sul fiume, su cui intravediamo una figura di uomo che al fiume parla, e si agita. Pian piano si avvicina, ma sempre coperto dalle foglie degli alberi. Lo vediamo appena, mentre ci emozioniamo ascoltando il monologo offertoci da Marco Cavalcoli, delicato e forte al punto giusto, mentre guardiamo quell’acqua piana del fiume, mentre tra alberi ed erba sentiamo una voce umana che sa di lontana tenerezza. Il percorso continua lungo la sponda e, poco più in là, un violino si dava. Con una sonata per violino e voce, proveniente da un’altra chiatta lontana, il fiume ci dà commiato. A noi, ma trattiene con sé il Toni, che lento su una canoa passa e va.

Tutto ciò che di Toni si poteva raccontare è stato raccontato. Siamo stati calati in lui. La regia e la drammaturgia (o sceneggiatura, verrebbe da dire) consentono di conoscerlo in modo immediato, senza avvertire il peso di un racconto narratologico. La ri-costruzione della sua vita è attuata con onestà e verità. Ci si sente dalla sua parte.

Alla fine dei percorsi, su quei pullman un po’ disorientanti, si torna nella magnifica piazza Bentivoglio di Gualtieri. Anche qui modi e usanze di ieri si rimaterializzano calandoci in una realtà altra e allo stesso tempo credibile, vera. Una banda suona la marcia funebre, introduce l’arrivo della bara. Toni è morto. E ce lo racconta lui stesso, mentre si arrabbia con noi per essere andati al suo funerale, pur non avendolo mai considerato prima, pur avendo disprezzato i suoi quadri. Vergogna, ci dice, vergogna. Con quella sua rabbia di bambino offeso, mai crudele o sporca come quella degli adulti. Perché in fondo, anche qui, Toni chiede solo un bacio. Lo grida. Un bés. Lo grida per lui Mario Perrotta, nell’unica sua apparizione in questi spettacoli di Bassa Continua. Lo grida con forza che commuove. Col grido si chiude la storia. Il corteo si allontana, un muto Toni sopra la bara, quasi a statua di sé stesso.

Un video-reportage dei giorni di Bassa Continua – Toni sul Po:

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