GIULIA RANDONE | La XX edizione del Festival delle Colline Torinesi (da quest’anno chiamato anche Torino Creazione Contemporanea) sarà ricordata anche per avere riportato in Italia le She She Pop. Dietro questo nome spensierato e ancora poco conosciuto qui da noi, si nasconde un collettivo femminile tedesco dalla poetica ben riconoscibile: autobiografica ma non autoreferenziale, in grado di trasfigurare l’esperienza privata in una biografia comunitaria, emozionante e formalmente ricercata. Nate alla fine degli anni Novanta, le She She Pop sono arrivate per la prima volta in Italia con lo spettacolo Schubladen, ospitato al Festival di Santarcangelo nel 2012. A Torino il gruppo si presenta invece con un dittico composto dal pluripremiato Testament. Preparativi tardivi per una nuova generazione ispirati a Re Lear (2010) e dal più recente Frühlingsopfer (2014). Accomuna i due lavori la presenza in scena, a fianco dei performer, dei propri genitori: nel primo caso i padri, protagonisti in carne e ossa sul palcoscenico, nel caso di Frühlingsopfer le madri, autentiche co-creatrici dello spettacolo, per quanto presenti solo in video.
All’inizio di Frühlingsopfer quattro enormi teli colorati incombono sulla scena. Sembrano una scenografia, ma quando l’immagine cambia e sui teli appaiono quattro donne scopriamo che i colori precedenti erano in realtà un dettaglio dei loro abiti. È il segno del ruolo subalterno con cui queste donne – madri-tappezzeria, madri-scenografia – inaugurano la loro presenza sulla scena. I figli le convocano in teatro, ma all’inizio si riservano il privilegio di dirigere l’azione: armati di microfono, le interrogano e le invitano a presentarsi, le ritraggono intente in operazioni ordinarie come passare l’aspirapolvere, le descrivono in funzione delle emozioni che il comportamento materno suscitava in loro da bambini. Una delle prime memorie rivela il disagio provato da una figlia nel vedere la madre ballare e l’imbarazzo con cui le madri si muovono ora di fronte alla telecamera fa pensare a una sottile forma di vendetta.
Il disagio è però bidirezionale. La rimemorazione del passato, ricordare cosa ha significato per le madri scegliere di diventare tali e per i figli ereditarne regole e tradizioni, rischierebbe di condurre entrambi in un cul de sac di psicologizzazioni e sensi di colpa. Sebastian Bark, Lisa Lucassen, Mieke Matzke e Ilia Papatheodorou raccolgono invece questo delicato materiale autobiografico e con una fune arancione lo inscrivono scenograficamente in un cerchio e, a livello compositivo, nella struttura a scene della Sagra della primavera. Il rito pagano messo in musica da Igor Stravinskij scandisce il ritmo di questo sacrificio moderno che vede la donna gravata da aspettative e ruoli indiscutibili. A differenza di quanto spesso accade nei dibattiti mediatici, le She She Pop non strumentalizzano posizioni ideologiche né annacquano il problema richiamandosi alla saggezza popolare. Decidono invece di dare voce alla donna e al suo “mettersi a servizio” traendo ispirazione dal significato originario della parola “sacrificio”, cioè “fare il sacro”.
Ciò che approntano in comunione con le proprie genitrici è infatti un’azione sacra, un rituale giocoso e serissimo. L’uscita dalla dimensione quotidiana e più limitatamente autobiografica è segnalata da un passaggio fondamentale: abbandonati gli abiti di inizio spettacolo, madri e figli si armano di tessuti e cinture modellandosi addosso sempre nuovi travestimenti. Sceltisi il proprio costume, gli otto protagonisti sono ora pronti a fronteggiarsi con un linguaggio alternativo alla dialettica verbosa e rancorosa. I figli imitano le pose dei genitori, cantano e danzano sotto lo sguardo delle madri, che dal canto loro li osservano con ironia, curiosità o distacco, partecipano al gioco e si svelano soprattutto attraverso primi piani silenziosi.
Cavalcando la ritmica straniante di Stravinskij, la tensione tra madri e figli raggiunge l’apice nelle scene finali (segnalate dagli attori attraverso appositi cartelli). Nell’“evocazione degli antenati” la musica corale degli ottoni e il suo andamento processionale avvicinano madri e figli al punto da condurre alla loro letterale fusione, i volti sovrapposti in video in un’orrifica compenetrazione. Nell’ultimo quadro, “danza sacrificale dell’Eletta”, ha luogo la guerra tra genitori e figli. Mentre la linea melodica viene sostituita da ritmi e accenti, i performer lottano a colpi di spintoni per scacciare l’ambiguità di una figura materna assente (sulla scena) ma in realtà sempre presente e invadente.
La perfetta coordinazione tra le azioni dal vivo e le riprese video alimenta l’illusione della presenza fisica delle madri e arricchisce di dettagli comici o perturbanti questo confronto scenico tra generazioni. Ma, ciò che è più importante, apre anche a una nuova dimensione semantica. Quando i figli colpiscono i volti materni, enormi e deformati dalle smorfie, è ormai evidente che protagoniste non sono più soltanto le madri biologiche dei performer. Dietro questo agone familiare emerge un agone ancor più necessario: quello con il proprio antenato, con le proprie origini e con i propri fantasmi, con ciò che sta dietro a me e a mia madre (e infatti dietro ai video si trovano spesso gli attori). Le luci si spengono così su una guerra che non ha prodotto né vincitori né vinti, su un sacrificio collettivo e rigenerante, che già domanda di essere riallestito.