ELENA SCOLARI |  Quattro giorni a Messina, dedicati al Mediterraneo, esplorandone gli aspetti politici, sociali, culturali, teatrali. Incontri con con autori, giornalisti, drammaturghi, attivisti da Algeria, Marocco, Italia, Egitto, Francia, Grecia, Turchia…12106870_775380702587980_242690903376245205_n

Qui vi diamo una panoramica generale su una parte dei numerosissimi eventi realizzati nell’ambito della seconda edizione di SabirFest, assai ricco, ambizioso per quantità di appuntamenti ma senz’altro prezioso spazio aperto all’opportunità di confrontarsi e dialogare con realtà che si conoscono poco. Paesi geograficamente non troppo lontani da noi ma con una complessità che continua a sfuggirci, una nebbia di disinformazione che è possibile dissipare – in parte – solo ascoltando chi da quei paesi viene e in quelle complessità cerca di vivere.

Con Mohamed Leghtas (Marocco) scopriamo ad esempio l’esistenza di un portale sulla società civile dell’area del Maghreb nato per segnalare censure alla libertà d’espressione, veniamo a sapere che in Marocco esistono alcuni temi tabù, dei quali alla stampa è vietato parlare criticamente: la monarchia, l’Islam, le situazioni dell’Arabia Saudita e del Sahara. Sul portale si possono indicare atti di violazione della libertà d’espressione e il coordinamento del progetto si attiva per dare voce a queste situazioni. Ci interessiamo di quali siano i mezzi artistici per contrastare la cortina ufficiale e Leghtas ci risponde che il teatro, spesso quello di strada, è un mezzo molto usato per trattare argomenti non permessi rivolgendosi in maniera diretta alla gente. Interessante sarebbe poter fare un confronto serio e circostanziato su ciò che, in Italia, oggi crea scandalo e sdegno, nel mondo teatrale e artistico.
Nello stesso incontro Cecilia Dalla Negra, giornalista indipendente dell’Osservatorio Iraq, Nordafrica e Medioriente ci spiega di come il suo lavoro significhi aprire la rete ai giornalisti di questi luoghi e consentir loro di raccontare ciò che vivono e vedono, senza filtri e senza pressioni editoriali o politiche. E ci riferiamo anche a importanti episodi positivi come il recente e partecipassimo World social forum tenutosi in Iran.

Si attraversa anche la filosofia, a Sabirfest: Marco Dotti ci parla di Simone Weil e del suo interrogarsi sul linguaggio come patria, un linguaggio sotterraneo che scorre nelle correnti del Mediterraneo e lambisce le coste di tutti noi, purché disposti a concedere attenzione all’altro, a mettere impegno nello sguardo creando qualità di relazione. Proprio come sosteneva Sant’Agostino (nato a Ippona, nell’odierna Algeria) con la sua massima “Deus est relatio”, intendendo la relazione come più alto grado di espressione umana.
Dall’Algeria viene anche Karim Metref che ci mostra un reportage di videointerviste a cura di Marco Letizia grazie al quale capiamo meglio cosa è stata la precoce primavera berbera nel 1980, una sollevazione che coinvolge tutta la regione della Cabilia per poi arrivare ad Algeri e aprire la strada all’insurrezione nazionale del 1988 che metterà fine al regno del partito unico, ma che porterà anche alla guerra civile del 1992.

Non potendo soffermarci nel dettaglio di tutte le relazioni ascoltate, proviamo a tracciare qualche linea di “relazione”, appunto, tra le varie esperienze incontrate nel festival: si riflette molto sulla possibilità di una lingua (come era una lingua il Sabir), intesa nel più ampio senso del termine, che sia terreno comune per riflessioni e comportamenti in anni di migrazione, di cambiamento, di continuo rinnovarsi di quel melting pot culturale che non ha più contorni nitidi ma che proprio in questa costante mutevolezza trova o può trovare la sua forza.
Se la drammaturga Magdalena Barile analizza acutamente la lingua in un puntuale excursus sul teatro di parola degli ultimi 60 anni concludendo che un solo e univoco Italiano non esiste, le risponde l’antropologo Francesco Remotti con una brillante argomentazione riguardo al concetto di Identità: nemmeno quella esiste! O almeno non rimane fissa nel tempo ma è fatta di una catena di somiglianze, continue copie di noi stessi che mutano con la vita e “in relazione” agli incontri che facciamo.

Chiudiamo questo reportage messinese dedicandoci a due spettacoli, coerenti con il tentativo di dare una silhouette alla mediterraneità di cui si è discusso nelle giornate sabiriche. Abbiamo detto tentativo non a caso: Patrizzia della compagnia Retablo e Nel fuoco di Suttascupa non sono esempi riusciti di una volontà – soltanto dichiarata – di aprire l’isolanità della Sicilia attraverso il mezzo scenico.
Il primo lavoro è tutto in siciliano strettissimo, soffriamo un po’ la fatica di seguire la parlata ma soffriamo soprattutto l’insistere, ancora, sulla mistica del dialetto meridionale che – di per sé – dovrebbe essere sintomo di profondo attaccamento alla terra, alle tradizioni, alle origini e in ultima analisi al “popolo” e quindi ai tanto amati ultimi. Sprechiamo un po’ di cinismo per dire che non è sufficiente mettere un bravo attore (quale senza dubbio è Savì Manna) in calze a rete e guêpière, calarlo nel sempre pittoresco mercato del pesce e farlo diventare complice di una rapinatrice (che morirà, per non difettare di dramma) per creare l’effetto verità e raccontare una città difficile come Palermo. In Patrizzia (inopinatamente descritta nella presentazione come sensation seeker…) c’è molto materiale buono, a partire dalla carica interpretativa di Manna, da contenere un po’ a vantaggio di una pulizia narrativa che esalterebbe gli elementi positivi.
Nel fuoco è invece la storia di Nourredine Adnane, venditore ambulante marocchino morto per essersi dato fuoco, a Palermo, interpretato dal giovane Maziar Firouzi. I Suttascupa vogliono parlare di un fatto di cronaca tragico senza aver ancora deciso quale sarà la linea artistica migliore per affrontarlo. Si sente chiaramente il coinvolgimento emotivo del regista Giuseppe Massa di fronte a questa terribile storia, si sente ma non emerge affatto nella realizzazione sul palco. Troppa astrattezza crea distanza invece di avvicinare, troppi cliché manichei sulla città cattiva e inospitale nei confronti di una categoria – gli immigrati – descritta come “buona” rendono schematica una riflessione che deve essere più complessa.

Un po’ di razionalizzazione organizzativa permetterebbe a SabirFest di connettere meglio i tanti punti toccati nelle quattro giornate. E unendo i punti potrebbe formarsi una figura – culturale – nuova.