FABIO TOLLEDI | Molte le note che si muovono dallo sguardo sul lavoro quotidiano all’interno dell’Accademia Nazionale di Teatro di Shanghai e osservando il Festival Nazionale di Suzhou in Cina. Nell’Accademia di Teatro di Shanghai si trova un complesso sistema educativo che conta cinquemila studenti iscritti all’interno di un modello di lavoro quotidiano di grande impegno e sacrificio, dalla mattina alle otto sino alle diciotto del pomeriggio. Il lavoro vede sessioni ristrette dedicate ad un massimo di tre allievi. La dedizione al particolare, la tenacia nella ripetizione costituiscono l’ossatura di una tecnica notoriamente ben appresa e che ha come obiettivo unico la perfezione.
Non manca però una domanda fondamentale. In questo contesto cosa definiamo noi col termine tradizione? Che valore ha per la Cina di oggi la tradizione teatrale? Questa domanda si rilancia nel momento in cui non possiamo non rilevare un intervento incessante di altri aspetti tecnici che, in maniera decisiva, intervengono nella realizzazione e nella fruizione di uno spettacolo teatrale.
Allora il corpo della tradizione sembra più richiamarsi ad un simulacro, che nell’epoca del consumo di massa – turisticizzato – continua a produrre infinite copie dell’originale. Questo richiamo all’originale è sostanzialmente il limite della modernità teatrale. Da Nietzsche ai grandi maestri del Novecento è un continuo richiamo alla ricerca delle origini del teatro. L’antropologia teatrale ne ha fatto il suo costante richiamo. Hobsbawm ha ben individuato come l’invenzione di una tradizione stabilisca o simbolizzi la coesione sociale, legittimando e fondando rapporti di autorità, socializzando sistemi di valori e codici di comportamento convenzionali.
L’Accademia di Teatro di Shanghai, tra le massime istituzioni educative dello spettacolo in Cina richiama un processo interessante: nel 1947, anno della fondazione, cerca di accostare la trasmissione del sapere del teatro tradizionale cinese con gli allora recenti insegnamenti promossi da Konstantin Stanislavskji. Assistiamo quindi ad un atto di chiara ibridazione, di connessione tra un corpo di saperi stratificati, accostati a qualcosa che in quegli anni (Stanislavskji era morto da meno di dieci anni e molti dei suoi allievi erano nel pieno della propria attività pedagogica) sta creando una nuova forma di lavoro per l’attore, ovverosia una nuova tradizione.
L’Accademia è divisa in cinque settori tra loro interconnessi: il teatro classico, il teatro moderno (o sperimentale), il teatro musicale, le arti marziali, la recitazione per il cinema e la televisione.
Va aggiunto inoltre il carattere territoriale del Teatro Cinese classico. Le forme del teatro sono suddivise per appartenenza territoriale, e ciò risulta facilmente comprensibile per un territorio così vasto e così popolato.
L’emozione è grande nel vedere sul palco del Festival Nazionale della Cina a Suzhou la grandissima attrice Pei Yanling.
Fa specie innanzitutto che questo nome ai più degli occidentali non dica nulla, ma Pei Yanling è considerata un’opera d’arte vivente, un monumento nazionale in vita. Nella sua carriera iniziata sessant’anni fa, ha sempre interpretato ruoli maschili. Pei Yanling ha ora sessantotto anni. Ho avuto la fortuna di vederla quasi trent’anni fa a Holstebro. Il fiore della maestria, per usare la formula di Zeami, sgorga vivido agli occhi di chi la guarda.
A Suzhou ho visto il suo nuovo adattamento di una vicenda classica e molto nota in Cina: Zhao Tuo. Ma anche in questo caso possiamo dire che la relazione tra tradizione e spinta all’oltrepassamento è avvertibile. Il pubblico, benché dinnanzi ad un opera d’arte vivente, non è in religioso silenzio. Reagisce, commenta, chiede. Il pubblico conosce molto bene la vicenda, i ritmi, le intonazioni. E segna con stupore e con sorpresa estasiata le variazioni che Pei Yanling introduce.
Roland Barthes ne L’impero dei segni parla dell’opera d’arte vivente del teatro in Giappone dicendo che l’emozione che muove da un corpo che si misura nella perfezione essenziale del gesto, del suono lascia lo sguardo dello spettatore in una condizione di conoscenza auratica dell’opera d’arte.
Questo è accaduto a Suzhou quando Pei Yanling concedendo il bis, toltosi l’impegnativo trucco dal volto e l’acconciatura che designa il principe vittorioso in guerra ma sconfitto in amore, ha cominciato a donare alcuni passaggi tra i più complessi del repertorio sonoro della Jīngjù.
Il volto segnato dal trucco che scolava misto al sudore ha segnato quel brivido che si instaura tra volto e maschera, quando la vita si sofferma a guardare l’arte e ne rimane incantata.
Suzhou con i suoi canali, le pagode, le gondole di legno si avvia anch’essa a non essere più lo spazio sospeso della sapienza millenaria, della lavorazione della seta, fatta di contraddizioni tumultuose incorniciate in immoti, lenti e circolari gesti. Suzhou è già lo spazio frenetico della merce turistica dove il teatro sogna un passato scomparso e non pare capace di dare parole al presente. Un teatro e una comunità artistica che ostinata resiste.
Sulla rubrica la missione dello sguardo
Alcune parole sul titolo di questa rubrica, La missione dello sguardo. Ho voluto chiedere a Renzo Francabandera di ospitare alcuni miei appunti di viaggio nella necessità di costringermi a fissare alcune note che in questi frenetici anni di spostamenti per il mondo mi hanno accompagnato. Nei prossimi mesi sarò di nuovo a Shanghai e poi Emirati Arabi Uniti, Iran, Viet Nam, ancora Cina e poi Brasile e Amazzonia.
La parola missione richiama quel grandioso libro che dà conto dell’apprendistato del giovane uomo che si affaccia al teatro ed alla conoscenza delle genti, il Wilhelm Meister di Goethe. Ma allo stesso tempo richiama un lavoro bello e mai troppo rappresentato di Heiner Muller. La missione non è solo la mission che in epoche di audience development, location e casting ci tormenta l’anima e non solo. La missione è il compito che ci diamo, ma anche l’avamposto terribile del colonialismo che ha sempre sterminato in nome di dio. La missione è l’obiettivo, begrif e aufgabe, ma anche l’avventura militare per eccellenza, dove l’eroe testimonia che dio è sempre con lui.
La missione dello sguardo, apre ad uno spazio inusuale. Tra immagine e figura, tra i saperi teatrali nei luoghi in movimento, tra ciò che – prossimo a noi – resta inconosciuto.
fabio tolledi
shanghai, novembre del 2015