GIULIO BELLOTTO | Il verde del fogliame della serra illumina il palco vuoto mentre Antonella Questa entra in scena attraversando rapida il corridoio tra il pubblico. Pochi secondi dopo, laSONY DSC sua sagoma s’intravede appena sotto un leggero scialle che le copre il corpo e la sedia su cui siede, come un sudario. Come il lenzuolo tirato su una barella d’ambulanza. Le luci si affievoliscono, la pièce – scritta dalla stessa interprete e da Francesco Brandi – sta per iniziare.

La nonna è caduta in casa, ha corso un bel rischio per una donna di ottant’anni. Vive sola per giunta, un’imprudenza a quell’età; la moglie del marito – lui lavora all’estero – l’accompagna a sirene spiegate in ospedale; poi direttamente alla casa di riposo, una da retta a tre zeri mensili, ma senza sirene, in questi casi non servono. E’ ordinaria amministrazione. La nipote non riesce mai ad andare a trovarla, tra lavoro e dottorato non ha proprio tempo. Una storia all’ordine del giorno, quasi scontata, per quanto triste; questo materiale diventa però capace di impressionare nelle mani di un attrice dalle capacità di Antonella Questa. Non tanto per la drammaturgia, ben costruita certo ma quasi scontata nel suo sviluppo e – ve lo posso rivelare fin da subito – “Vecchia sarai tu” finisce bene, è una favola moderna, quasi un pezzo di cabaret frizzante da one-woman-show. Non stupisce neppure il fatto che, come i migliori spettacoli d’intrattenimento, abbia i suoi momenti dedicati al riso; un’ironia ben dosata, mescolata a un sarcasmo molto politically incorrect, impreziosisce la rappresentazione di una (neppure troppo) velata critica sociale ai tempi d’oggi.

Misurata, pulita, sensibile ed efficace, la vera chiave di volta dello spettacolo è però l’interpretazione e l’attrice non si risparmia: tiene brillantemente la scena senza appoggiarsi a nessuna scenografia, vestita semplicemente di nero e avvalendosi come unico oggetto di scena dello scialle/sudario/lenzuolo che nel girandolico alternarsi delle tre donne nelle sue sembianze diventa anche sciarpa e coprispalle. A ciascuno di questi utilizzi corrisponde puntualmente, attraverso la descrizione del personaggio, un’età. A ciascuna generazione spetta il proprio carattere; ecco che quindi “Vecchia sarai tu” smette di essere una storia un po’ pietistica sulla sorte degli anziani nel Primo Mondo globalizzato e si trasforma in un afflato di comune umanità che spira dai bunker montani dove la nonna s’innamorava di un figlio di contadini sotto i bombardamenti tedeschi, fino alla città grigia e senza prospettive in cui vive la nipote, passando per le ville vendute dalla madre. Da quei terrazzi si vede il mare aggredire le coste della Liguria, ambientazione della pièce; in riva al mare la casa della nonna ospita l’amore senile con il figlio del contadino, dopo una vita di stenti e privazioni. Si torna insomma su toni più emotivi, non per forza stucchevoli, che culminano in un atteso lieto fine.

Rimane però la consapevolezza che lo spettacolo non è più solo intrattenimento e leggerezza, ma sottende un’analisi sociale piuttosto interessante che per una volta si impone nei contenuti teatrali e non solamente nei fogli di sala. I personaggi meglio delineati sono evidentemente i più anagraficamente distanti: nonna e nipote sono in realtà unite dalla mancanza di tempo, l’una per via dello spettro della morte, l’altra perché – specchio della gioventù – affonda in una vischiosa rete di incertezze lavorative, ansie generazionali, crisi di identità e paranoie esitenzial-arrivistiche. E’ una resa scenica che non offende e non giudica, ma sorride. Perché alla fine la nipote sorride, il contadino, unico personaggio maschile, interviene provvidenzialmente e salva le cose ristabilendo la situazione iniziale pre-ospizio, proprio come in una favola. E che bello vedere una struttura drammaturgica chiara a servizio di un messaggio e non viceversa!
Le due donne si avvicinano, gli antipodi si toccano, la speranza è nel futuro. Magari è velata di buonismo, ma sotto il velo c’è speranza.
La madre invece resta distante, lontana anche dallo spettatore. Un po’ perché ha caratteri improntati più alla macchietta di una donna vanesia alle soglie della menopausa che alla verosimiglianza di una quarantenne; un po’ perché viene sacrificata sull’altare delle strutture schematiche della fiaba e in quanto antagonista dura e pura fa la fine della Strega dell’Est, infine per via del suo momento di follia, credibile proprio in quanto esagerato: un raptus che brucia il personaggio nella tensione creata dalla fisicità dell’attrice.
A supporto di ciò l’uso accorto della colonna sonora e la musicalità delle parole stesse, amplificata dal fatto che la nonna parla dialetto, fa da sottofondo ad alcuni momenti di teatro fisico e danza, esplicitamente descrittivi ma funzionali.
Poi, quando lo spettacolo si conclude, sull’onda del sentimento anche le foglie in fondo alla serra sembrano più luminose di prima.

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