ELENA SCOLARI | Il sogno dell’arrostito di Paola Tintinelli, Alberto Astorri e Rita Frongia è un magnifico catorcio poetico, un macinino anacronistico che sferraglia sognante come il nostalgico Millennium falcon dell’ultimo Guerre stellari. astorri-tintinelli
Lo spettacolo nasce da un’idea on the road delicata e ostinatamente felliniana: un pulmino Volkswagen (sì, quello della famiglia Bradford, ultimamente tornato di modissima) azzurro e bianco, in viaggio lungo l’Italia si ferma per raccogliere i sogni della gente. Le persone sono invitate a salire a bordo dai due clown Fefè e Fofò e a registrare i loro sogni, in solitudine, su nastri, vecchi nastri magnetici. Alcuni di questi sogni sono serviti da suggestione per l’atmosfera dello spettacolo e forse altri se ne aggiungeranno.

Il lavoro teatrale è però un arrosto farcito, numerosi sono i riferimenti cui gli autori si richiamano: da La pazienza dell’arrostito di Guido Ceronetti («Viaggiare è ormai un’attività da collezionista di ripugnanze. Oggi i roghi di invisibili inquisitori ci arrostiscono con tacita, misteriosa lentezza») al cinema di Elio Petri (se la classe operaia va in paradiso questa classe teatrale va in officina, potremmo dire), dai discorsi surreali di Cesare Zavattini ai quadri di Bruno Caruso, dalle canzoni antisistema di Gianfranco Manfredi fino alle poesie di Federico Tavan, cui lo spettacolo è dedicato.
Non tutti questi immaginari sono leggibili allo spettatore, ad una prima visione priva delle chiacchiere che generosamente A&T regalano dopo lo spettacolo, sui gradini del Teatro della Contraddizione.

I due personaggi in scena, un sindacalista e un’operaia, intessono dialoghi strampalati ma con intenzioni chiare: si mostrano la cattiveria del prossimo, gli slanci utopistici di ideologie fallite, la nostalgia verso un’idea nobile di lavoro, il desiderio di rivolta, l’affetto per un mondo che – forse – ascoltava più di ora. Astorri è un arruffapopolo caldo, sanguigno, romantico, irresistibile. Il compagno che tutti seguirebbero, proprio per la sua geniale sconclusionatezza. Tintinelli è un’operaia operosa, continuamente al lavoro con i suoi macchinari impossibili: frese, motorini, ingranaggi, martelli, un concentrato della ferramenta di famiglia col quale costruisce una partitura sonora che diventa colonna dello spettacolo, una sonorizzazione che sarebbe perfetta per Tempi moderni di Chaplin.
Sappiamo da sempre che Astorri e Tintinelli sono a loro agio tra oggetti sgangherati, scene sbilenche e abiti dall’aspetto traballante, qui abbiamo un florilegio da trovarobato del rimpianto, i due attori si costruiscono (da tempo) un tempo tutto loro, irreale, che abbraccia il pubblico e lo sospinge dove la finzione è più forte di tutto.

C’è umorismo intelligente e molta poesia ne Il sogno dell’arrostito, poesia soffusa in una naïveté commovente sebbene forse eccessiva. Dipende dall’atteggiamento che si sceglie: se ci si lascia andare al rifugio del sogno per riparare allo stritolamento della società attuale (più post-moderna che moderna) si rimarrà pienamente soddisfatti, se invece si cerca una via più… filosofica, più analitica, che cerchi cioè non solo di rifuggire le brutture ma di capire perché oggi hanno così successo (per cercare di sconfiggerle, magari), allora si resterà un po’ inappagati.

Lo spettacolo si chiude con la voce del poeta friulano Tavan che recita un suo verso favoloso, non possiamo non citarlo: “ridatemi l’altalena, voglio toccare il cielo con il culo”. Ma non dimenticheremo nemmeno Alberto Astorri, in mutande, che volteggia “classico” indossando calzini rossi con ricamata la faccia del Che.
Il duo ha una cifra ben precisa, che non muta le proprie caratteristiche, una riconoscibilità inconfondibile che tiene un po’ legati, ma è un conforto sapere che questa coppia artistica saprà tenere alta l’altalena di tutti.

 

In coproduzione con Officina Teatro e Armunia e con il sostegno di ERT.