normal-distribution-2.gifRENZO FRANCABANDERA | I social media rappresentano una modalità di divulgazione del parere personale davvero singolare. Gli utenti chiedono, alle loro cerchie, pareri su argomenti diversissimi e non è raro assistere a richieste sul fatto che convenga o meno andare a vedere uno spettacolo. Si affida la scelta, in genere,  al sentimento e alle impressioni più che al ragionamento. Alle amicizie o a presunti gusti condivisi.
Riflettevo quindi sul fatto che da questo tipo di sondaggi, per ovvi motivi legati alla curva di Gauss che raffigura l’andamento dei fenomeni nella loro tipicità normale (infatti si chiama anche curva “Normale”), non potranno che uscire vincitrici quelle opere di teatro capaci di soddisfare requisiti di minor complessità (o noiosità a seconda del sempre legittimo punto di vista) o di coinvolgere nell’accessibilità un maggior numero di persone, quelle appunto che nella curva sono sotto la campana e a cui corrisponde la ricorrenza statistica maggiore.
Il girone dei noiosi, il paese degli sbalocchi, invece, interesserà meno persone: sono le operazioni che delle emozioni e della parola si interessano in forma più articolata, in alcuni casi destrutturata, se non addirittura distruttiva. Per loro la ricorrenza statistica è minore. Sono gli estremi della normale: i troppo… o i troppo poco.
Antonio Latella è sicuramente fra questi ultimi, ancorché negli ultimi anni sia riuscito ad attrarre un seguito importante, anche grazie ad un ben fatto lavoro di distribuzione e comunicazione, arrivato (finalmente?) a produzioni generose: un regista che difficilmente ha utilizzato il suo teatro per commuovere il pubblico con monologhi strappalacrime e da sempre sì è adoperato per una drammaturgia contemporanea che anche quando si confronta con il classico, ne esige una riscrittura. Quest’ultima è il cuore, la traduzione della riflessione che di volta in volta viene compiuta, che poi prende la sua strada creativa autonoma per tornare al regista per la messa in scena.
94092ed90a12378adb740f960640585c_w600_h_mw_mh_cs_cx_cy.jpgFanno quindi bene il regista e i suoi drammaturghi di riferimento, Federico Bellini e Linda Dalisi, ad inserire nella bibliografia di corredo al volume prodotto dal Piccolo Teatro per il debutto di Pinocchio, nuova produzione che vede per la prima volta insieme l’artista e la più nota istituzione teatrale italiana, la menzione a “Il mulino di Amleto“, singolare testo di quasi quarant’anni fa in cui si indagano i sistemi di conoscenza preistorica arrivati fino a noi filtrati dal mito. Si tratta di evocazioni sulle tracce di complesse conoscenze di astrofisica già nella disponibilità delle popolazioni primitive, ma immaginiamo che il riferimento al testo si ponga come metodo di lavoro per un regista che da sempre ha cercato chiavi ancestrali di rilettura dei personaggi secondo uno schema che definiremmo di strutturalismo ante-mitico o favolistico.

Cosa stiamo cercando di dire? Che il metodo di lavoro di Latella, sottilmente sotteso a questa indicazione bibliografica, è che ogni mito, ogni fiaba, incorpora un sistema di conoscenza già esistente e pregresso di cui il lavoro scenico si fa traduzione. E’ un po’ il rovesciare la medaglia, individuando nel classico non il punto di partenza ma diremmo di arrivo. Per comprendere quindi il classico Latella, partendo dalle tracce che trova nel classico e che ritiene di volta in volta fondanti l’osservazione, parrebbe cercare un prima. Come se Eschilo, Shakespeare, Collodi fossero punti di arrivo e non di partenza. Nell’applicazione di questo schema, esattamente un decennio fa, il fantasma del padre di Amleto negli Hamlet’s portraits interpretato da Fabio Pasquini, elencava, come aprendo l’abbecedario, una sorta di tassonomia della tragedia shakespeariana.
Lo stesso attore, un decennio dopo, nei panni del Grillo parlante con lunghe antenne sensibili, sembra misurare spazi e tempi che sfuggono alla percezione dei protagonisti della favola e dei suoi lettori, di noi quanto del tronco di legno in predicato di diventare essere umano. Quanto dista il paese dei Balocchi? E la casa di Pinocchio dalla scuola?
L’immenso tronco che occupa la scena viene sezionato, fatto a pezzi. Per quasi tutto lo spettacolo gli attori sono sotto una pioggia incessante. Di trucioli.
Dall’alto della scena piovono residui di processi di lavorazione del legno che sommergono il palco e gli attori. La meccanica narrativa è quindi simbolicamente fatta a pezzi, deframmentata per costruire un altro scenario, o l’ambientazione di qualcos’altro. Arrivare a Pinocchio è un po’ arrivare al cuore dell’originalità italiana, di un certo genio narrativo tutto nostrano fatto di verità, bugie e crudeltà.

L’allestimento è una riflessione ampia su uno dei testi fondanti l’immaginario nazionale, con interpretazioni iconiche molto persistenti nella memoria collettiva.
Proprio per questo il regista campano sceglie, come per l’Amleto, il Moby Dick, Arlecchino servitore di due padroni e per tutti i testi dell’eredità greca con cui si è confrontato, di tenere la struttura portante leggibile, forse qui più che in tutti gli altri casi, esplodendo alcune questioni, ambienti e logiche su cui i drammaturghi, compreso il regista stesso in questo caso, si adoperano alla ri-accentazione archeologica.
Lo spettacolo è diviso in due atti, che corrispondono alle due parti in cui il testo di Collodi fu editato: la prima che corrisponde al nucleo principale, creato dallo scrittore motu proprio; la seconda è invece quella che fu stimolata allo scrittore dai suoi “giovani lettori”, inquietati dal finale tragico (la morte per impiccagione del burattino) ma anche dalla storia così ricca e curiosa uscita dal genio della penna toscana. Così nacque la seconda parte, quella della redenzione di Pinocchio e della sua definitiva nascita come essere umano adolescente, dopo aver superato una serie di prove messe lì un po’ dal caso, un po’ dalla dispettosa e genitoriale Fata Turchina, assai poco sorella e molto più mamma di scorta.
Cosa ri-pensa Latella in questo allestimento?
Innanzitutto pone Collodi, al pari di Dante, fra i padri della patria letteraria, omettendo certo una serie di altri padri fondanti del patrimonio culturale nazionale, da Ariosto a Manzoni (ma ammettiamo che Dante sia utilizzato come sineddoche).
2200845_15940776_10154864902607154_5657831596884593339_n-1.jpgQuindi nella prima parte la nascita di Pinocchio corrisponde alla nascita di una nuova lingua, di un nuovo modo di essere, di sentire, con il protagonista (complessivamente ben interpretato da Christian La Rosa, l’Oreste del Santa Estasi vestito da Lara Croft, che segna  la cesura generazionale e di linguaggio con le parrucche della generazione precedente. Il suo parlare, balbettare, crea parola da parola, in un vocabolario che forgia, anche in modo insistito e un po’ forzato, ad onor del vero, un tempo e uno spazio nuovi.
Ma in fondo Pinocchio anche letterariamente ha un che di videoludico essendo uno dei pochi personaggi che ha, come Super Mario Bros, più di una vita.
L’energico protagonista, che segna una cesura così forte con il mondo, il linguaggio, la comunità precedente, ha da dire un po’ su tutto, dalla società al teatro, a volte a proposito, a volte a sproposito, a volte in modo ricco e intelligibile, altre volte in modo pretestuoso e scollegato. Capiamo, comprendiamo a tratti, vorremmo qualcosa capace di portare noi adulti spettatori a confrontarci con i piccoli lettori che fummo e trovare in questo spazio un Virgilio capace di collegare l’ora e l’allora. Ma la guida che cerchiamo nel testo è assai fantasmatica: spesso si dissolve in evanescenti mensole di truciolato su cui non riusciamo a fondare pensieri capaci di scavalcare la visione stessa. E infatti a pochi giorni di distanza praticamente non ne ricordiamo alcuna di significativa. Per carità: non manca niente, c’è la fata, il gatto e la volpe, il teatrino dei burattini, ma nessun segno (verbale soprattutto) ha davvero la potenza di restare indimenticabile. La morte del primo atto arriva in fondo meritata. Ma anche noi, piccoli lettori che fummo, in fondo, vorremmo dare a Pinocchio un’altra possibilità.
43375072153_10154839048202154_.pngAnche Collodi lo fece risorgere, e così Latella, con il secondo atto, riparte dall’Ade, da un’oltretomba onestamente suggestivo, una delle migliori idee dell’allestimento, che corrisponde al momento dei medici attorno al suo letto, di cui si ascolta, poeticamente, solo la voce, come se fossimo anche noi nel Purgatorio.
La seconda parte, costruita in modo più affascinante e compatto rispetto alla prima a nostro avviso, sia per il testo che per le intuizioni sceniche e attorali, rivela un approccio freddo e disincantato all’universo delle fiabe ma, nel guardare quasi esclusivamente al loro lato crudele ancorchè reale, sviluppa i temi dei rapporti familiari, le vicinanze, le lontananze, le incomunicabilità. Anzi, forse troppo tardi ci arriva per poter dare compiuto argomento a tematiche cruciali come quella del rimpianto per i dialoghi mancati fra genitori e figli con cui lo spettacolo si chiude, dei rapporti anaffettivi anche se umanamente densi con chi vuole bene anche se non mostra bontà, passando per la raffigurazione dello spirito tentatore come parte della propria identità, fino al più ovvio conflitto generazionale.
Qui si trovano chiavi più ricche anche perché giocate all’interno delle logiche della seconda parte di Pinocchio, che effettivamente ha una meccanica più familistica e meno onirica, permettendo a Latella di tornare su temi latenti ma sempre presenti nei suoi allestimenti.
brunellagiolivo3.jpgChiudiamo sugli attori, come sempre chiamati ad un impegno notevole fra lo stare e l’essere, fra essere elemento della composizione scenica ed essere personaggio. Da questo punto di vista il secondo atto di Speziani è un’enciclopedia dell’attore, dove il massimo della lirica è nella sequenza in cui Geppetto si perde in mare. Qui il falegname che ramazza trucioli e il vecchio che rema stremato si fondono in un unico gesto fatto di poesia e invenzione.
Bene tutti, anche se alcuni spazi di improvvisazione restano un po’ fini a se stessi se non vissuti profondamente. La lunga bestemmia, parodia e forse citazione di quella di Berlinguer ti voglio bene, è elemento recitativo che deve appartenere alla profonda cultura di provenienza, altrimenti rischia di essere solo sorda e volgare, mentre la vera bestemmia è prima di tutto fantasia di riuscire a pensare ad una deità che si fa misero quotidiano.
Ci piace segnalare sotto questo aspetto la positiva prova di Marta Pizzigallo, con le sue sfumature di ingenua consapevolezza delle piccole crudeltà.
Lo spettacolo ha molti semi. Non tutti germogliati. Di alcuni forse si aspetta invano lo sbocciare, altri invece, come sempre è bello, fioriscono grazie agli attori. Forte ciò che colpisce lo sguardo, meno intenso l’impatto della ricerca nella parola, che non arriva nell’abisso, nella gola del pescecane, e non riconcilia come avrebbe potuto il grande spettatore con il piccolo lettore.
Per tornare, da ultimo alla provocazione del titolo, fra il vedere e il non vedere, davanti a intensi ragionamenti e a complessità sceniche, anche per non disabituarmici, preferisco sempre vedere. Sempre stare dalla parte di chi ci prova, di chi sceglie la via meno battuta.

Pinocchio
drammaturgia Antonio Latella, Federico Bellini, Linda Dalisi
regia Antonio Latella
scene Giuseppe Stellato, costumi Graziella Pepe
musiche Franco Visioli, luci Simone De Angelis
con Michele Andrei, Anna Coppola, Stefano Laguni, Christian La Rosa, Fabio Pasquini, Matteo Pennese, Marta Pizzigallo, Massimiliano Speziani
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

 

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