DOMENICO COLOSI | Innanzitutto il sorriso di Nella Tirante: il massimo sforzo per l’opera di una vita, monumento autobiografico che vuol farsi esame di coscienza collettivo. O semplice invocazione a dei e santi, Lari e Penati vari.
Fidelity Card scherza con la religione do it yourself con toni tra il calendario di Frate Indovino e 2666 di Bolaño, impresa titanica per condensare in un’ora di palcoscenico le lacrime di una vita, le ore di attesa prima di una visita in ospedale, i pomeriggi spesi al balcone osservando la vita altrui. Un ragazzo disabile dalla nascita (Gianmarco Arcadipane) e una madre in attesa di un miracolo (la stessa Tirante) sono gli ingredienti base per la classica melassa dai buoni sentimenti.
L’ispirazione, tuttavia, salva lo spettacolo dalle banalità della premessa: il sorriso della protagonista, esaltato in apertura, accompagna lo spettatore verso i circuiti meno battuti di una religiosità popolare solo fintamente kitsch. Come un meridionale devoto alla radiosa Santa Edwige in luogo del consunto Padre Pio.
La furia onnicomprensiva della madre sfocia dunque in un morbido neopaganesimo, culla rassicurante in una comprensibile fase di smarrimento emotivo (e giù con i santi, i santoni, i predicatori e i taumaturghi). Così, mentre il ragazzo dà fondo ad una logorrea incessante sugli amati campioni dello sport, i culti privati della donna accarezzano l’idea di una religione plagiata dalla competizione neoliberista, pura appendice di un marketing proletario da raccolta punti del benzinaio. Nell’angoscioso finale, tuttavia, un eccesso di moralismo distrugge dalle fondamenta le preziose scelte drammaturgiche della Tirante: nessuna ambiguità risolutrice, ma la solita brodaglia emotiva sull’eccezionalità della vita. La voce del cuore che, in pochi minuti, umilia le ragioni dell’arte. Tra gran sventolar di fazzoletti, chiaramente.
Al centro del palco la gabbia-letto-prigione-balcone ideata dalla scenografa Cinzia Muscolino premia l’ambizione del regista Roberto Bonaventura verso quella compattezza formale che da sempre contraddistingue i suoi lavori, una densità già apprezzata in quell’Uomo a metà che molto ha in comune – per tematiche e vocazione – con il lavoro della Tirante. Scialbi i costumi (una divisa da album ingiallito della nonna accanto a una proiezione in 3D di un calciatore da videogioco), per tacer delle scarpe.
Lo spettacolo, vincitore all’ultima edizione del festival Teatri del Sacro, vive tutto sul contrasto emozionale tra la calma apparente di una Tirante con smorfia giocondesca e l’iperattività di Arcadipane, leone in gabbia per una malattia che, almeno per tre quarti di spettacolo, trova la sua dignità di racconto. Poi il finale – quasi grottesco nel suo spicciolo didascalismo – a segnare un solco tra l’onestà degli intenti e un applauso convinto.
FIDELITY CARD
di Nella Tirante
con Nella Tirante, Gianmarco Arcadipane
regia e ideazione luci Roberto Bonaventura
aiuto regia Michelangelo Maria Zanghì
scene, costumi e grafica Cinzia Muscolino
Teatro Clan Off di Messina, 18 novembre 2017