ILENA AMBROSIO | Uno strano “gioco”, la rappresentazione di un universo orrorifico, ma di un orrore che poggia le sue basi sulla più comune e quotidiana realtà. Si potrebbe definire così Trilogia dell’indignazione, l’ultimo lavoro di Giovanni Meola in debutto al Napoli Teatro Festival. Un incontro con il catalano Esteve Soler autore di una Trilogia Contra el Progreso (2008), Contra l’Amor (2009),Contra la Democracia (2010) – tradotta in diciassette lingue e messa in scena da decine di registi in giro per il mondo. Un racconto, quello di Soler, che rappresenta in ventuno episodi, sette per ciascun opera, le mostruosità e le sinistre contraddizioni dell’uomo e del mondo contemporanei.

strutturaDi quegli episodi Meola ne ha scelti sette – otto se si considera la sintesi di due nell’ultimo pezzo –, incastrati un dopo l’altro con minimi adattamenti di testo. L’operazione di “incastro” è materialmente esposta già dalla scena: al centro dello spazio una struttura di ferro, ideata, disegnata e realizzata da Flaviano Barbarisi, composta da cinque elementi collegati ad un palo centrale, che, spostati a ogni episodio, ne evocano l’ambientazione facendo non solo da sfondo all’azione ma, da azione stessa, da personaggio, persino, con il quale gli altri quattro interagiscono in una maniera intensa e intimissima.

Si direbbe, anzi, che quasi solo con la struttura centrale i protagonisti creino una vera connessione. I quattro interpreti – al trio femminile riuscitissimo di Tre. Le sorelle Prozorov si aggiunge Enrico Ottaviano – sono, di episodio in episodio, colleghi di lavoro, amici, una coppia, una famiglia, eppure mai (o quasi) questi personaggi si guardano negli occhi, mai, pur toccandosi, sembrano entrare davvero in contatto. Lo stile recitativo punta al totale antinaturalismo, gli attori, muovendosi da un punto all’altro della struttura, intrecciandosi a essa, salendo o scendendo da essa, dialogano tra loro ma guardando fisso al pubblico.

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Foto di Nina Anna Franca Borrelli

Ad accentuare l’aspetto meta-teatrale, la presenza di un narratore, interpretato a turno da uno dei quattro, che declama da un lato della scena le didascalie del testo e le azioni dei personaggi. Una voce in campo (con relativo corpo) che assume per ciascun frammento una precisa fisionomia: canto gregoriano per l’episodio del dirigente d’azienda che vuole essere un nuovo dio, voce spezzata dalle lacrime per una coppia che si sta lasciando; onomatopeici “dan-dan-dan” e commento da film thriller in un misterioso hotel in cui avvengono strane morti di coniugi; ancora, tono cantilenato per raccontare di genitori che decidono di ammazzare la figlia – di certo senza la versatilità caleidoscopica degli interpreti questo lavoro non avrebbe potuto essere realizzato. Quasi un coro greco che racconta le azioni dei personaggi – che, il più delle volte, essi non compiono concretamente – ma anche le commenta con l’intonazione della voce, i gesti, gli sguardi.

Ciò che Meola pare aver voluto creare è propriamente un congegno, una costruzione in cui non c’è fluidità drammaturgica, e tuttavia c’è coerenza con leit motiv a volte quasi impercettibili: una parola ripetuta, uno sguardo, un movimento replicato.  L’andamento è, volutamente, meccanico, geometrico, come quello degli ingranaggi interni di un orologio.

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Foto di Nina Anna Franca Borrelli

Ed è proprio la geometria a farla da padrone, dalla struttura scenografica, alle forme colorate proiettate sul fondo, fino, soprattutto, ai costumi. Ciascuno di un colore, ma con quadrati di sfumature differenti – come dei mattoncini lego, ancora costruzioni – i costumi di Marina Mango fanno di questi personaggi qualcosa che sta a metà tra delle marionette e dei soldati; un apparente paradosso che invece pare perfettamente aderente al senso della drammaturgia di Soler così come della messa in scena realizzata da Meola.

Le marionette sono mosse dai fili, i soldati marciano e sottostanno a regole ferree: in entrambi i casi non c’è volontà, non c’è libero arbitrio, ma schiavitù a una sovrastruttura rigida e inclemente che non ammette deviazioni. Qui quella struttura, materialmente incombente al centro della scena è, globalmente, la realtà, l’«oggidì» – per dirlo con Leopardi – quella dell’egemonia del danaro, del profitto personale, quella del razzismo, dell’immiserimento dei sentimenti, dello svilimento della dignità individuale. Marionette ma, allo stesso tempo, esercito fedele del Generale Mondo – continuo sulla scia delle Operette morali – questi personaggi popolano un universo paradossale nel quale quei disvalori hanno raggiunto le estreme conseguenze, un incubo orrendo nel quale si ammazza come per gioco, l’amore è ridotto a una pillola, ci si sposa e lascia per contratti a tempi determinati, si uccidono figli frutto di coiti interrotti.

Eppure le scelte registiche hanno fatto in modo che, per i personaggi in scena, questo fosse perfettamente normale: non c’è parodia, né caricatura né, tanto meno, farsa; quelle persone orrende vivono l’orrore delle proprie vite come se nulla fosse dichiarando con il più assoluto candore intenti e sentimenti da far accapponare la pelle. Un, a primo acchito, indecifrabile mix di assurdità e quotidianità che lascia interdetti se non spiazzati.

E sta proprio qui l’ingranaggio fondamentale, nel corto circuito che si crea tra le mostruosità rappresentate e la normalità con la quale ciò viene fatto; è qui che lo straniamento incontra la catarsi, che il disorientamento dello stridio lascia il posto alla comprensione del senso estetico – davvero affascinante – dell’operazione ma, soprattutto etico. Perché in quel corto circuito nasce il germe inquietante del dubbio: e  se fossimo noi quei soldati-burattini marcianti, sempre più ciecamente, dritto verso un baratro di inumanità? Se tutto questa bruttura divenisse un giorno davvero normale?

 

TRILOGIA DELL’INDIGNAZIONE
di Esteve Soler

Virus Teatrali
regia – adattamento Giovanni Meola
ass.te alla regia Annalisa Miele
con Roberta Astuti – Sara Missaglia – Enrico Ottaviano – Chiara Vitiello
consulenza alla drammaturgia Armando Rotondi
scenografia Flaviano Barbarisi
costumi Marina Mango
foto di scena Nina Anna Franca Borrelli

Napoli Teatro Festival
Cortile delle carrozze 12 giugno 2018