36720960_1016266161871356_315959784526315520_nANDREA CIOMMIENTO e SIMONE ROSSET | Luglio 2018. Ci troviamo a Barcellona alla scoperta di uno dei festival performativi più interessanti d’Europa. Stiamo seguendo il GREC, la rassegna internazionale che ha aperto la sua programmazione con il concerto di Alva Noto proseguendo con spettacoli di danza, circo, performance e creazione scenica (tra le firme troviamo i Serrano, El Conde de Torrefiel, Milo Rau e Jan Fabre).

Non è facile sfogliare le pagine del festival, troviamo decine e decine di titoli, suddivisi principalmente tra due grandi filoni: il GREC MONTJUÏC e il GREC CIUTAT. Nel primo troviamo una decina di teatri che ospitano gli spettacoli di “respiro internazionale” e nel secondo una ventina di strutture artistiche con una programmazione maggiormente legata al tessuto urbano della città.  Nei giorni di esplorazione catalana scopriamo quindi gli edifici del Mercat de les Flors, Teatre Lliure, Teatre Grec e Institut del Teatre compongono il quartier generale del festival in stretta relazione con la mappatura di altri luoghi della città, come per esempio il SAT! Sant Andreu Teatre, l’Antic Teatre e la Sala Beckett. La nostra permanenza in Catalunya non è stata infinita pertanto non siamo riusciti ad attraversare più spazi di quelli citati. Ma potete farvi un giro sul sito del festival per comprendere l’intera mappa e farsi un’idea più precisa (Spazi del Grec Festival).

Abbiamo scelto di raccontare i luoghi e non tanto i singoli spettacoli che abbiamo visto, per questo iniziamo da una sala storica del centro di Barcellona, la Beckett, dove abbiamo seguito uno degli spettacoli in programmazione: “Una gossa en un descampat” di Clàudia Cedó. Non vi racconteremo appunto lo spettacolo, per questo vi lasciamo direttamente alle parole dell’autrice (Video con Clàudia Cedó (autrice) e Sergi Belbel (regista)). Vi presentiamo invece la realtà che ha ospitato questo spettacolo e che di fatto si può considerare un vero e proprio luogo di casa per molti autori catalani e stranieri. Un luogo connesso al mondo della programmazione, della produzione e della formazione con una particolare sensibilità alla drammaturgia contemporanea. Insomma, in un pomeriggio di metà luglio, prima dello spettacolo serale, abbiamo preso un caffè con Toni Casares, direttore della Sala Beckett, all’interno di una delle tante sale prove di questo edificio decisamente suggestivo e abbiamo fatto una chiacchierata per comprendere le radici e le traiettorie di questo spazio. Alla fine del focus trovate anche un breve estratto video dell’intervista.

Come nasce la Sala Beckett? La Beckett nasce nel 1988/1989: il contesto era diverso rispetto a oggi. La Beckett nasce come qualcosa di insolito. Era uno spazio di lavoro di una compagnia, il Teatro Fronterizo diretto da José Sanchis Sinisterra, un luogo dove fare attività sperimentale, prove e spettacoli, senza una programmazione regolare. Uno spazio da aprire solo quando serviva e se non serviva sarebbe potuto rimanere chiuso per la compagnia. Questa era la prima idea della Sala Beckett. È passato molto tempo.

Cosa è accaduto negli anni? A Barcellona, per colpa della bolla immobiliare e della politica economica, è stato sempre più complicato avere spazi di lavoro e di spettacolo nel centro della città. Uno dei rischi era quello che la Sala diventasse solamente una sala di programmazione, a poco a poco si è fatto un lavoro di apertura in un equilibrio tra creazione, formazione, sperimentazione, connessione con il pubblico, presentazione degli spettacoli. La sperimentazione artistica ha senso se ha come obiettivo presentare il lavoro al pubblico. Un lavoro non per forza terminato, non chiuso con il giorno del debutto, ma è importante che si lavori per lo spettatore.

Avete qualche riferimento europeo? Il nostro riferimento europeo è certamente il Royal Court di Londra con le dovute distinzioni.

Ora ci troviamo nella nuova sede del teatro… Questo è stato un altro grande spazio di crescita. La Beckett non vuole essere totalmente uno spazio pubblico. Infatti è uno spazio privato che riceve sovvenzioni pubbliche e questo è importantissimo. Ora si è trasformata in una fondazione privata con molti aiuti. Non vogliamo essere totalmente istituzionali perché nei luoghi troppo istituzionali è complicato gestire la creazione contemporanea perché servono margini di dinamismo e improvvisazione con attività non sempre regolate. Questo nel teatro pubblico è difficile. Questa non è una sala commerciale, né istituzionale, né indipendente: questo è il suo segreto.

Quale formazione viene proposta ai nuovi autori? Qui facciamo attività di creazione e formazione, questa prossimità genera un’aspettativa. Gli alunni sanno che qui non siamo lontani da un’attività professionale, in più gli autori sono in contatto con giovani che stanno imparando. Qui non facciamo cammini accademici, non siamo collegati all’università. Vogliamo che anche i docenti apprendano dagli allievi.

Tra gli autori passati ci sono diversi nomi della scena contemporanea, come Rafael Spregelburd e Juan Mayorga… Il genere che più coltiviamo qui è il teatro di testo. Questo non è solo un luogo della formazione ma anche un luogo di passaggio di diversi autori. Il nostro segreto è che la Beckett non lascia diplomi ma offre fiducia. Il segreto è fidarsi dei creatori: fidarsi dell’autore significa poter debuttare una sua opera. Non avere pregiudizi perché uno è un autore giovane o nuovo, non dire “prima scrivila poi vediamo”, qui alla Beckett proviamo a far sentire un drammaturgo autorizzato a pianificare progetti e ad andare avanti, nonostante le situazioni economiche difficili.

Possiamo considerare ancora aperto il dibattito che contrappone la drammaturgia testuale ad alcuni codici estetici multidisciplinari della nuova scena catalana? Ogni volta mi è difficile apporre etichette a generi o stili, uno spettacolo di una stessa compagnia lo si può etichettare in diversi modi. Il teatro di testo contro quello multidisciplinare mi sembra un dibattito superato. È interessante invece una nuova forma di lavoro in compagnia che ha portato a una rinascita. È nata una nuova forma di lavoro, non legato a strutture chiuse con un regista, un autore e gli attori. Oggi le compagnie sono diventanti spazi di convivenza molto permeabili dove per ogni progetto confluiscono persone. Sono famiglie aperte che si confondono, si mescolano. Questa è stata la maniera di superare un problema sugli spazi. Le compagnie non avevano la possibilità di avere uno spazio proprio, e in questo modo hanno imparato a lavorare in questa maniera molto liquida. Questo è un fenomeno interessato, legato alla drammaturgia testuale quanto a quella multidisciplinare, proprio perché queste compagnie attraversano più linguaggi.

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