MATTEO BRIGHENTI | Cadere è il nostro respirare. La vita cade dappertutto, non c’è più orizzonte, né futuro. Nemmeno i palloncini volano verso l’alto, il cielo è chiuso, le stelle, i sogni, rimangono piantati per terra. Siamo traiettorie immobili e <OTTO> dei Kinkaleri ci mostra l’ironia tragica di un passaggio beckettiano nel mondo sempre tentato, sempre fallito, che lascia dietro di sé soltanto le tracce, le sagome di una natura caduca con oggetti da discount quotidiano.
A 15 anni dalla prima, avvenuta il 16 gennaio 2003, la compagnia ha ripreso e riportato in scena al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato il lavoro che vinse il Premio UBU con i soli studi preparatori, l’anno precedente al debutto. Ieri – all’indomani dell’11 settembre – come oggi, il crollo è la quintessenza di un’epoca in cui non siamo più padroni del corpo, dei pensieri e delle azioni: la strada ci frana sotto i piedi. <OTTO> domanda ancora perché e come tutto questo possa ac-cadere.
La prospettiva è un incombente campo lungo, Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli e Mirco Orciatici, vengono avanti, incontro a noi, da lontano, laggiù in fondo, una porzione della nuova estensione del Centro progettata dall’architetto sino-olandese Maurice Nio. Ai lati di un contrafforte-dorsale, come la pinna di un pesce, si aprono due ingressi, coperti con delle tende. In scena, per il momento, si stagliano un microfono sulla destra, tre casse poco più avanti e una scarpa nera da uomo sperduta là nel mezzo.
Baglioni entra e cade, rientra e ricade; poi rientra, ricade e schiaccia un tubetto. Sassoli è in lotta contro il niente che gli sta addosso, tira pugni al vuoto e a se stesso. Bertuccelli balla un pezzo di Kylie Minogue di spalle, ascoltando la musica da un lettore cd portatile anni ’90. Sono quelle le loro parole da giovani, le canzoni, da Perfect Day di Lou Reed a Moonlight Shadow di Mike Oldfield, da Boyband dei Velvet a High and Dry dei Radiohead e Beautiful Stranger di Madonna. Le urla al microfono sono senza voce, solo labiale e colpi sordi del microfono preso per l’asta. Il sabato del villaggio di Leopardi, accennato a sussulti, è l’eccezione seria che conferma l’energia repressa della loro gioventù continuamente respinta, ricacciata al suolo.
Lo spazio s’ingombra via via di più: una 24 ore, della carta igienica, un sacchetto di frollini, una bambola, una tenda, le cose sparse accumulano cadute su cadute. Siamo gli oggetti che usiamo e non riusciamo a portarne fino in fondo il peso, ma solo a patirlo. Infatti, qualcuno di essi viene segnato con delle lettere, repertato come sulla scena di un crimine. Le azioni di ogni giorni, la colazione, andare a lavoro, il picnic domenicale, li portano a faccia in giù, fermi, immobili. Poi, il silenzio, accentuato, per contrasto, da quel sottofondo pop rock di anni passati a fantasticare un avvenire migliore.
Paiono fatti di gomma, tanto sono elastici e morbidi, hanno mille vite, come nei videogame o nei cartoni animati. Ogni volta che si rialzano non c’è altra conseguenza che ritornare dove sono venuti. Dietro quelle due tende, cioè fuori da qui, si ostinano a cercare un’opportunità di riscatto, una linea da tendere per poter camminare come sul filo, con una direzione d’equilibrio davanti a sé. <OTTO> è un incessante darsi e farsi coraggio.
I bambini in sala ridono, abbagliati dalla forma comica, ma il dramma è stringente, da supplizio mitico: siamo corpi fragili che non si reggono in piedi. Sappiamo che la caduta (ci) succederà, non quando, né, tantomeno, perché proprio a noi. È inevitabile. Il tremore è dentro di noi.
La domanda che muove <OTTO> pare quindi trovare una risposta. E invece, la conclusione non chiude affatto la performance, tra le più entusiasmanti viste quest’anno. Anzi, ne illumina la natura di classico che, per citare Italo Calvino, «non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli, Mirco Orciatici, non entrano per cadere, cadono perché entrano. La questione nodale, allora, è il motivo per cui, nonostante tutto, continuiamo lo stesso ad andare, a provarci, per il tempo di un respiro che ci riempie i polmoni. Realizziamo l’impossibile, ma soltanto per pochi attimi, e con grande sforzo.
La creazione, in definitiva, è un dialogo danzato su cosa ci fa umani davanti a oggetti comuni. Per l’occasione, continua ben oltre la sua durata: ciò che rimane sulla scena diventa un’installazione all’interno della mostra Il Museo Immaginato. Storie di trent’anni di Centro Pecci a cura di Cristiana Perrella. Vie di fuga da attraversare, ricostruire, immaginare.
<OTTO> 2003/2018
progetto, realizzazione Kinkaleri / Matteo Bambi, Luca Camilletti, Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Cristina Rizzo
con Filippo Baglioni, Chiara Bertuccelli, Andrea Sassoli e Mirco Orciatici
produzione KLm / Kinkaleri
in collaborazione con Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Teatro Metastasio di Prato, ContemporaneaFestival, spazioK.Kinkaleri
con il sostegno di Regione Toscana, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Dipartimento dello spettacolo
Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci
Prato
12 ottobre 2018
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