LAURA NOVELLI | Nel 2006 Carlo Cecchi dava vita a un’edizione di Sei personaggi in cerca d’autore  di Pirandello che ho avuto la fortuna di vedere al Valle (teatro dove, come è noto, l’opera debuttò nel ’21 con scia di polemiche) e a proposito della quale avevo scritto: «Nell’attualizzare il testo e – soprattutto – nel restituirlo alla concretezza di una fisicità scenica che si fa corpo, lingua e ritmo attualissimi, Cecchi (anche in scena nel ruolo del regista, affiancato da un ottimo cast che comprende, tra gli altri, Paolo Graziosi, Sabina Vannucchi e la sensuale Antonia Truppo) arriva al cuore della problematica pirandelliana legata al binomio realtà-finzione e la piega alle incertezze e allo spaesamento dell’uomo contemporaneo, realizzando un lavoro asciutto, innovativo, originale che ha già raccolto più di 130mila spettatori e che è stato “esportato” anche in Germania, ospite del Berliner Ensemble con altre produzioni rappresentative del nostro teatro».

Qualche stagione dopo (era il 2008) l’attore e regista, oggi settantanovenne, firmò una bella lettura del  Tartufo di Molière (visto sempre al Valle) dove aveva messo a segno una coraggiosa lettura della commedia francese che sembrava un’intelligente “filiazione”, in termini contenutistici e formali, proprio del precedente Sei personaggi. Anche su quell’interessante lavoro ebbi la possibilità di esprimere qualche idea: «La situazione costruita qui da Molière è molto articolata e, adottando la traduzione di Cesare Garboli, Cecchi si appropria anche del vigore interpretativo a essa sottesa, così da offrire una trasposizione scenica leggibile su più livelli. Tartufo diventa infatti un testo/spettacolo/metafora in cui il mellifluo impostore evocato nel titolo – viscido parvenu che per sete di denaro riesce a catturare i favori del ricco Orgone, foraggiando il suo senso di (pseudo) pietas e illudendolo di stare nel giusto – non risponde più solo all’immagine di un essere ripugnante e gretto (che alla fine sarà punito e arrestato), ma apre scenari più vasti, nei quali pure le vittime sono espressione di una società malata, imbellettata, sempre pronta a “recitare” il falso».

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È strano – ma non certo casuale – come entrambe quelle messinscene mi siano tornate in mente mentre assistevo, al Teatro Argentina di Roma, a una replica di Enrico IV – ancora Pirandello dunque – che Cecchi porta in giro per la Penisola da diverse stagioni (ne ha scritto per PAC Laura Bevione in occasione delle repliche torinesi) e che sarà ancora in scena, fino al 10 marzo, al Teatro Massimo di Cagliari. Anche qui a sorprendermi è stata soprattutto la capacità di entrare nella fodera, nel tessuto, nella fibra di questo testo così sfaccettato e moderno.

Ancora una volta, dunque, Cecchi smonta un meccanismo già di per sé raffinato e complesso per dimostrare che il tema della follia – qui centrale – coincide con quello del teatro, della recitazione, della dialettica persona-personaggio, verità-finzione. Il “matto” altri non è che un attore libero di scampare le convenzioni sociali perché possiede un rifugio sicuro, la sua testa balorda, “antisociale” per antonomasia.
D’altra parte, nella fluida vacuità della vita, dove nulla è incasellabile e nessuna identità può dirsi integra, unica e integerrima, a salvarsi possono essere solamente i folli o i personaggi partoriti dalla Fantasia di un qualsivoglia Autore. Ė sufficiente ripercorrere le bellissime pagine della Prefazione ai Sei personaggi per ricordarci quanto la vita umana sfugga alla possibilità di essere fissata in una forma, differentemente da ciò che succede  nel caso di un personaggio teatrale. Tanto più di un personaggio folle. È un gioco di moltiplicazioni. Di specchi. Di capovolgimenti. Alla fine resta, però, la sola (in)certezza che nulla è certo. E che il teatro – viva Dio – rappresenta una roccaforte – l’ultima? – dell’umanità.

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Insomma, in Enrico IV questo accostamento follia-recitazione viene enfatizzato all’ennesima potenza e diventa il motore di un allestimento dove la metateatralità apre la strada a continui riferimenti alla compagnia stessa che mette in scena Pirandello, ad altri testi della drammaturgia moderna (come per esempio La cena delle beffe di Sem Benelli), al capocomico – Cecchi stesso, dunque, autocelebrativo ma sempre sornione e ironico – che interpreta con il consenso di tutti i comprimari (comparse comprese) il suo “ruolo” di imperatore tedesco. Tutti danno il meglio per mostrarsi attori, personaggi che fingono di essere altri e, al contempo, interpreti di una storia borghese di amori infelici, laide gelosie, vecchi screzi da vendicare.

Il registro complessivo è sottoesposto si affida alla sottrazione. Ma il dramma c’è tutto. Ci scappa anche un morto, che morto davvero ovviamente non è. E ci scappano anche tante allusioni all’oggi, alla nostra società della finzione amplificata, alla politica scellerata di questi tempi oscuri, al culto dell’immagine, all’insabbiamento della verità cui tutti noi, volenti o nolenti, contribuiamo ogni giorno.
Ne deriva un lavoro brioso, ritmato, leggibile su piani diversi; che fonde e confonde le carte di continuo e che forse risulta tanto più godibile quanto più si conosce Pirandello e la storia artistica di Cecchi. Che è una storia sempre protesa a costruire memoria di teatro anche quando sembra distruggerne i cliché. O forse proprio perché sa distruggerne i cliché. La scena è, alla fine dei conti, una tribuna di verità. Che ci piaccia o no. Uno spazio/tempo di resa dei conti con l’umano che è in noi. In fondo, ce lo aveva raccontato anche Sei, la felice rilettura di Sei personaggi di Spiro Scimone e Francesco Sframeli debuttato  quest’estate al Napoli Teatro Festival Italia (di cui hanno scritto per Pac Elena Scolari e la sottoscritta).

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Tolto ogni alone filosofeggiante, ogni ridondante pirandellismo, questo Enrico IV arriva insomma all’osso della questione. E paradossalmente si impone come un esempio di grande teatro – egregio l’intero cast, composto tra gli altri da Angelica Ippolito, Chiara Mancuso, Remo Stella, Roberto Trifirò, Gigio Morra –, riallacciando quasi un filo di continuità con quella Commedia dell’Arte nostrana in cui l’improvvisazione strutturata significava abilità e maestria e strizzava l’occhio al pubblico per dirgli: questa è finzione, è fatica, è follia, ma in fondo ti stiamo dicendo la verità.
Siamo tutti comparse sulla scena del mondo. E non è un caso che, durante lo spettacolo, venga anche letto uno stralcio della lettera del ’21 che Pirandello indirizzò a Ruggero Ruggeri, grande attore per il quale l’opera venne scritta. Mi piace riportarne buona parte. Tanto per andare alla fodera del vestito:

Caro Amico, mi affretto a rispondere alla Sua lettera del 19, di cui La ringrazio con tutto il cuore. Le dissi a Roma l’ultima volta che pensavo a qualche cosa per Lei. Ho seguitato a pensarci e ho maturato alla fine la commedia, che mi pare tra le mie più originali: Enrico IV, tragedia in tre atti di Luigi Pirandello. Le accennerò in breve di che si tratta: Antefatto: – Circa venti anni addietro alcuni giovani signori e signore dell’aristocrazia pensarono di fare per loro diletto, in tempo di carnevale, una «cavalcata in costume» in una villa patrizia: ciascuno di quei signori s’era scelto un personaggio storico, re o principe, da figurare, con la sua dama accanto, regina o principessa, sul cavallo bardato secondo i costumi dell’epoca. Uno di questi signori s’era scelto il personaggio di Enrico IV; e per rappresentarlo il meglio possibile s’era dato la pena e il tormento d’uno studio intensissimo, minuzioso e preciso, che lo aveva quasi per circa un mese ossessionato. Sciaguratamente, il giorno della cavalcata, mentre sfilava con la sua dama accanto nel magnifico corteo, per un improvviso adombramento del cavallo, cadde, batté la testa e quando si riebbe dalla forte commozione cerebrale restò fissato nel personaggio di Enrico IV. Non ci fu verso di rimuoverlo più da quella fissazione, di fargli lasciare quel costume in cui s’era mascherato: la maschera, con tanta ossessione studiata fino allo scrupolo dei minimi particolari, diventò in lui la persona del grande e tragico Imperatore. Sono passati vent’anni. Ora egli vive – Enrico IV – in una sua villa solitaria: tranquillo pazzo. Ha quasi cinquant’anni. Ma il tempo, per lui (per la sua maschera, che è la sua stessa persona) non è più passato ai suoi occhi e nel suo sentimento: s’è fissato con lui, il tempo. Egli, già vecchio, è sempre il giovine Enrico IV della cavalcata. Un bel giorno si presenta nella villa a un nipote di lui, il quale seconda la tranquilla pazzia dello zio, a cui è affezionatissimo, un medico alienista. C’è forse un mezzo per guarire quel demente: ridargli con un trucco violento la sensazione della distanza del tempo. La tragedia comincia adesso, e credo che sia d’una veramente insolita profondità filosofica ma viva tutta in una drammaticità piena di non meno insoliti effetti. Non gliel’accenno per non guastarle le impressioni della prima lettura. Data la situazione, avvengono cose veramente imprevedibili, se Ella pensa che colui che tutti credono pazzo, in realtà da anni non è più pazzo ma simula filosoficamente la pazzia per ridersi entro di sé degli altri che lo credono pazzo e perché si piace in quella carnevalesca rappresentazione che dà a sé e agli altri della sua ‘imperialità’ in quella villa addobbata imperialmente come una degna sede di Enrico IV; e se Ella pensa che poi, quando a insaputa di lui, è messo in opera il trucco del medico alienista, egli, finto pazzo, tra spaventosi brividi, crede per un momento d’esser pazzo davvero e sta per scoprire la sua finzione, quando in un momento, riesce a riprendersi e si vendica in un modo che – sì, via questo davvero, per lasciarLe qualche sorpresa, non glielo dirò.

 

ENRICO IV
di Luigi Pirandello

adattamento e regia Carlo Cecchi
con Carlo Cecchi, Angelica Ippolito, Gigio Morra, Roberto Trifirò
e con Dario Caccuri, Edoardo Coen, Vincenzo Ferrera, Davide Giordano
Chiara Mancuso, Remo Stella
scene Sergio Tramonti
costumi Nanà Cecchi
luci Camilla Piccioni
foto Matteo Delbò

Produzione Marche Teatro

Teatro Argentina, Roma
12-24 febbraio 2019

 

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