LAURA BEVIONE | Theodor W. Adorno descriveva la realtà sopravvissuta alla Seconda Guerra Mondiale quale un mondo in cui «gli uomini sono strappati gli uni dagli altri e da se stessi», ovvero incapaci di conoscere non soltanto l’altro da sé ma pure la propria stessa identità. Una dolente constatazione che, nondimeno, appare indispensabile per comprendere la drammaturgia contemporanea, a partire da Samuel Beckett, cui il filosofo dedicò imprescindibili scritti.

E proprio un monologo – o, meglio, un dramaticule – dell’autore irlandese, Non io (Not I), è portato in scena da Maria Luisa Abate, diretta da Marco Isidori per la stagione del Marcidofilm!.

L’attrice, maglia e pantaloni neri, è in piedi su una pedana circolare mentre ai lati del palco, di spalle, quattro figure, anch’esse vestite di scuro – Francesca Rolli, Paolo Oricco, Valentina Battistone, Vittorio Berger – danno corpo all’anonimo e silente Auditore previsto da Beckett.

Maria Luisa Abate è Bocca, una donna di circa settant’anni che ha trascorso la propria esistenza senza parlare, ma non perché afflitta da mutismo bensì per una scelta più o meno consapevole e volontaria assunta quando era una bambina, senza genitori e dunque senza amore.

Non ioL’attrice mormora energicamente le battute spezzate e brevissime della donna, un balbettio tremulo eppure potente che mima lo sforzo necessario per venire al mondo.  La parola quale scoperta inattesa e meravigliosa, che giunge quasi per caso, in inverno. Una scoperta che, nondimeno, sdoppia Bocca, incapace di riconoscersi in quel suono, in quelle parole che paiono fuoriuscire da un antro oscuro, esterno al corpo della donna. Ecco, allora, le mani spesso portate a coprire il volto: un gesto semplice eppure altamente simbolico, emblematico di un’intrinseca incapacità di conoscere in primo luogo se stessi.

Come se si trovasse di fronte a uno specchio immaginario che riflette la sua immagine, Abate/Bocca si nasconde ai suoi stessi occhi, corrugando il corpo così da rendesi, se possibile, ancora più piccola, in un impossibile tentativo di svanire. Bocca si rivolge a quell’altra da sé che ha scelto di parlare come una presenza esterna, una “lei” straniera e inconoscibile da cui sfuggire.

Maria Luisa Abate, con la generosità e la concentrazione che le sono proprie, incarna la tragica duplicità del suo personaggio, regalandole sguardi disperatamente innocenti e irrisolvibile disorientamento, ma pure energica volontà di sfidare la propria fragilità, pur con la consapevolezza dell’inevitabile sconfitta.
Bocca diviene così una creatura esemplare, minuta e delicata espressione di un’insuperabile incapacità di riconoscersi e di capirsi.

E se Bocca, per sopravvivere, afferma, con convinzione alla fine assai sbiadita, che quella voce non è la sua, allo stesso modo i personaggi di Senza famiglia, scritto da Magdalena Barile e portato in scena da Il Mulino di Amleto, con la regia di Marco Lorenzi, si ripetono, nei momenti di difficoltà, «non sono qui», a dichiarare l’estraneità alla propria stessa esistenza.

Senza famiglia (ph M.Giusto) 2
Foto Manuela Giusto

Le tematiche trattate dal dramma di Magdalena Barile – una tragedia contemporanea e dunque senza eroi né possibile catarsi quanto, piuttosto, beckettiana presa d’atto della grottesca comicità dell’esistenza umana – sono numerose: la famiglia quale “nido” protettivo, certo, ma pure soffocante; l’esito fallimentare delle tentate “rivoluzioni” degli anni Settanta del Novecento; l’inevitabile conflittualità fra le generazioni; la refrattarietà ad aderire a modelli identitari nei quali non ci si riconosce salvo, però, ricorrere a ulteriori maschere e a rinunciare a indagare in profondità e a rivelare se stessi.

La nonna – un imponente e algidamente paternalistico Angelo Tronca, con candida parrucca e occhiali da sole, maglia e gonna scura e un bastone/stampella quale strumento di governo – è una ex-femminista e rivoluzionaria, che non soltanto ha aderito alle lotte per l’emancipazione femminile ma ha pure a lungo flirtato con il terrorismo degli anni ’70. Una donna combattiva che non può accettare la remissività della figlia – Barbara Mazzi, misurata ed empatica – sposata con un uomo indolente e maschilista – Francesco Gargiulo, abile a evitare la tentazione della caricatura – e con due figli post-adolescenti intenti, auto-commiserandosi, a ricercare il proprio posto nel mondo – Christian Di Filippo e Alba Maria Porto, anch’essi capaci di dare umana rotondità ai propri personaggi – l’uno giunto finalmente a riconoscere e a dichiarare la propria omosessualità, l’altra convinta che il suicidio possa liberarla da una se stessa in cui non si riconosce.

Senza famiglia (ph M.Giusto)
Foto Manuela Giusto

La nonna, defunta, decide di tornare temporaneamente fra i suoi  cari, radunati nella casa al mare, così da “insegnare” alla figlia a farsi rispettare da marito e figli.

C’è una scala dalla quale buttarsi confidando che il genitore ci prenderà al volo; c’è il vento che fa volare via riviste e sicurezze granitiche; c’è un salmone che forse non vuole più nuotare controcorrente, c’è un figlio che indossa gli abiti della madre e c’è una figlia alla disperata ricerca di un trinciapollo.
Ci sono rapporti ai quali oramai si è fatta l’abitudine anche se ci feriscono e c’è il sentimento di vuoto di generazioni cui è stata preclusa una rivoluzione e a cui, invece, è toccato vivere il ritorno all’ordine senza possibilità di rimetterlo in discussione.

Privato e politico convivono in quest’opera amara e crudele e tuttavia struggente, che racconta non soltanto i malintesi e i rancori che covano in ogni famiglia ma l’incapacità di ciascuno di riconoscere e accettare se stesso e, dunque, di riconoscere e accettare gli altri, senza tentare di cambiarli. Non ci sono, infatti, buoni in questo sconsolato apologo: la nonna agisce certo a fin di bene eppure il suo “bene” non coincide con quello della figlia che, credendo di liberarsi, alla fine si condanna per sempre.

Regista e attori de Il Mulino di Amleto sprofondano la vicenda in un’atmosfera ognora più livida: l’esordio quasi “balneare” e spensierato sfuma in sipari inquietamente surreali, percorsi dal vento e caratterizzati dal quasi impercettibile abbassarsi delle luci. I movimenti si fanno brevi, la recitazione misurata e concentrata, a tratti gli attori indossano maschere di uccelli, primitivi oppure extraterrestri… La tensione cresce, lenta ma inesorabile. Fino al finale struggente, a quel ripetere «io non sono qui» che è ultimo e consapevolmente vano tentativo di fuga da quello che si è e da quello che si ha, o non si ha, fatto. Non io, non qui…

www.fertiliterreniteatro.com

NON IO
di Samuel Beckett

regia Marco Isidori
interprete Maria Luisa Abate
produzione Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa 

Teatro Marcidofilm!, Torino
21 marzo 2019

SENZA FAMIGLIA
di Magdalena Barile

regia Marco Lorenzi
light designer Eleonora Diana
interpreti Christian Di Filippo, Francesco Gargiulo, Barbara Mazzi, Alba Maria Porto, Angelo Maria Tronca
produzione ACTI Teatri Indipendenti/Il Mulino di Amleto; in collaborazione con Campo Teatrale, Tedacà; con il supporto di Residenza IDRA nell’ambito del progetto CURA 2018; con il sostegno del Centro di Residenza della Toscana (Armunia Castiglioncello – Capotrave/Kilowatt Sansepolcro)

Teatro bellARTE, Torino
22 marzo 2019

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