ELENA SCOLARI | Corna. E ci sono anche quelle di un cervo. Ma in fondo non sono il vero punto. I Tradimenti di cui parla Harold Pinter (testo del 1978) sono soprattutto quelli verso se stessi, verso come si era o come si voleva tentare di essere. La vita ci può far deviare e così tradiamo l’altro (o l’altra) ma in realtà tradiamo noi e corrompiamo l’idea che di noi avevamo. Quant’è vero.
Però Pinter è un premio Nobel (Letteratura, 2005), quindi questo non basta, il pregio dell’opera è che – secondo il suo stile – distrugge in poche pagine tutto un piccolo mondo borghese mostrando la pochezza ma soprattutto la normalità di alcuni individui “tipo” che incarnano ipocrisie, debolezze, miopie, illusioni, superficialità molto molto comuni.

Tradimenti inizia nel 1977 a Londra: Emma e Robert sono sposati ma si stanno lasciando, Emma ha avuto una relazione di sette anni (e chiusa da due) com il migliore amico del marito, Jerry, pure sposato e con figli. I due ex amanti si incontrano in un pub, ridicolmente imbarazzati. Da qui il testo prosegue à rebours, un flashback fatto di quadri che arrivano fino al 1968, spezzoni del passato in cui vediamo stralci della liaison clandestina, bevute tra i due amici, vacanze fallimentari (a Venezia) tra i coniugi, la festa in cui per i due adulteri è iniziato tutto.
Il trio di attori è determinante per il tono che definisce lo spettacolo: Stefano Braschi è Jerry, perfettamente calato nel suo imbarazzo, naturale benché consapevole, Michele Sinisi/Robert (anche regista dello spettacolo) è un marito dalla cadenza pugliese, inquisitorio e asciuttissimo, per niente incline al compianto, un poco appiattito su un accento secco, veloce, che non muta nelle diverse situazioni: Stefania Medri/Emma è giustamente vanesia ma non abbastanza sfaccettata per rendere il personaggio “sostenibile”. È certamente vero che la scrittura di Pinter non vuole affondare, approfondire, scandagliare la psicologia di questi tre individui ma lasciarcela intuire dai loro comportamenti e dalle loro battute, vuole sbugiardare quello in cui hanno creduto liquidandoli senza troppo indagarli, ma è altrettanto vero che – nonostante questo – Braschi sa comunque passare dall’incredulità alla preoccupazione, dalla sfrenatezza all’ottusità, allo snobismo.

Revolutionary Road

Come sempre più spesso mi succede, con l’avanzare dell’età, nella testa si creano collegamenti spontanei durante la visione degli spettacoli; in questo caso ho ricordato due film: Revolutionary road di Sam Mendes (2008, anno di morte di Pinter) e Carnage di Roman Polanski (2011), entrambi tratti da due libri altrettanto riusciti, rispettivamente di Richard Yates e di Yasmina Reza (Il dio del massacro). Ci ho pensato perché tutti e due raccontano con cinismo e ferocia assoluti (molto più che in Tradimenti) la dissoluzione dei rapporti, l’amore che si sgretola, la coppia che si sfalda, l’esplodere spietato dei rancori, in ambito middle class. Benestanti, professionisti affermati, idealisti velleitariamente eccentrici con lavori intellettuali in cui non ci si sporca le mani. La facciata laccata delle villette bianche con mobilio chic nasconde meschinità, piccinerie, semplicemente infelicità. Niente di nuovo.

Che cosa può essere nuovo, allora, nel raccontare storie di persone che da giovani si amavano e credevano di essere uniche come il loro sentimento ma, come molti, invecchiando, inciampano su strade assai ordinarie? La forma che si dà a questa ineluttabile scoperta.
Sinisi ha tentato una via che mette la parola fisicamente al centro della scena, rendendola scenografia (a cura di Federico Biancalani): un pannello quadrato di circa tre metri per tre è un tazebao sul quale si illuminano di volta in volta le parole che designano tempo e luogo dell’azione.
La traduzione di queste parole è ineccepibile, a cura di Alessandra Serra.

Ne rimarrà la struttura, l’oggetto si sfalda, cade, si smonta così come i rapporti tra le persone.
La regia mantiene fedelmente, come è dovuto fare, il testo di Pinter, i suoi dialoghi serrati, le situazioni in cui i tre personaggi turnano in una rotazione di conversazioni superficiali, prive di qualunque approfondimento o analisi di ciò che sta accadendo. Nessuno reagisce alle menzogne come sembrerebbe normale fare, loro stessi sono menzogne, campano su quelle, sul misero sapere o non sapere di essere stati turlupinati. Occhio però: se il vostro amico smette di invitarvi a giocare a squash c’è sotto qualcosa.

Perfino i mestieri di Emma, Jerry e Robert sono fatui, o meglio, così sono considerati: lei gestisce una galleria d’arte (pensate in quanti film e spettacoli, da Woody Allen in giù, le donne che non hanno niente di serio da fare vengono fornite di una galleria come “trastullo”), Jerry lavora nell’editoria e Robert è un talent scout di scrittori.
Un giro di corna tra operai non sarebbe altrettanto frivolo.

Ma quello che si disgrega non sono solo le relazioni, si frantuma una grande illusione, ed è forse qui la cifra particolare di questo Tradimenti. Azzardo un’interpretazione della scena che rappresenta più di tutto il taglio che Sinisi vuol dare al suo Pinter.
L’ultimo quadro, e cioè la sequenza della festa in cui comincia la storia tra i due amanti (1968), è una lunga playlist di alcuni dei maggiori successi riempipista degli anni ’80. Emma balla, da sola, osservata con desiderio divertito e un po’ seduto da Jerry; il marito Robert è di spalle, indossa le cuffie, è seduto anche lui e guarda la platea, non si accorge di nulla. La donna balla su Papa don’t preach di Madonna, Beat it di Michael Jackson, Wild boys dei Duran Duran (wild boys fallen far from glory…), Should I stay or should I go dei Clash, Take on me degli A-ha. Circa nove minuti (che paiono parecchio di più) in cui viene molta voglia di ballare ma viene anche voglia di chiedersi se – al di là del godimento per chi su quelle note ha memorie gioiose di gioventù – è davvero necessario occupare così una consistente porzione di spettacolo per far capire (e questa è l’interpretazione personale) che si sta ammettendo e mettendo allo scoperto il ritmo di quella leggerezza che ha causato una cascata di fallimenti – anche sociali e politici -–e che, in sostanza, finisce in discoteca. Dove era iniziata.
Se il pubblico si fosse alzato a ballare sarebbe entrato dentro la finzione, rompendola.

Un punto acuto del testo è quando Robert “butta là” con nonchalance che, ogni tanto gli prudono le mani e le dà alla moglie, così, per darle una ripassata. Pinter la chiude qui e nessuno fa una piega, che è forse più significativo rispetto alla sottolineatura che Sinisi decide di darne inscenando le botte, seppur in un angolo della scena.
Se lo spaccato dance è ciò che più rimane in mente, non voglio trascurare altre scelte che caratterizzano questo allestimento pinteriano: la grande testa di cervo con il suo palco di corna (si chiama palco come quello del teatro, una combinazione curiosa) che divide i due amici sul tavolo a cui mangiano, parlando con un effetto sonoro volutamente brutto, e il pollo lungamente bruciacchiato da Emma con un bruciatore da cucina, un dramma brûlé.
Due segni per così dire, post-moderni, eterogenei alla morfologia del resto dello spettacolo dove il nucleo centrale è quel totem tutto concettuale dove prima si fissano le coordinate e poi i riferimenti stessi pulsano confusamente quando l’ordine è scosso.
Quando tutti capiamo di essere principi nel regno della desolazione.

TRADIMENTI
di Harold Pinter

traduzione Alessandra Serra
regia Michele Sinisi
consulenza artistica Francesco M. Asselta
con Stefano Braschi, Stefania Medri e Michele Sinisi
scene Federico Biancalani
aiuto regia Nicolò Calandro
ph. Luca del Pia
produzione Elsinor Centro di produzione teatrale

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