ANDY VIOLET | Infanzia canora, da un punto di vista prettamente etimologico, è un ossimoro. Infanzia, infatti, derivando dal latino infans che indicava letteralmente “colui che non sa parlare”, era per gli antichi l’età dell’afasia, dell’incapacità di articolare la compiuta complessità del pensiero adulto. Tanto bastava perché le lallazioni e le incerte paratassi dei bambini venissero apparentate al mutismo, ed anche quando, oltrepassata la soglia della pubertà, cominciavano a strutturarsi le prime manifestazioni del pensiero categorico, queste non venivano considerate che prove tecniche di futura saggezza di giovinetti ancora teliphrones, “dalla mente lieve”.
Ben altra fascinazione subirà invece il Romanticismo da parte del pensiero sincretico ed indisciplinato del bambino: sotto la spinta delle preoccupazioni pedagogiche di Rousseau, l’infanzia ottocentesca si coprirà della veste linda della primavera dell’umanità, la sua espressione sarà poesia naturale in quanto linguaggio della Natura, libero da ogni forma di condizionamento, autentico ed autarchico come solo può esserlo un genio. E’ qui che nasce il mito dell’enfant prodige, dell’arte come conseguenza immediata del talento, diabolica invenzione borghese, come rileverà Don Milani, per assicurare al ceto medio un’impenetrabile egemonia culturale, attribuendo dolosamente alla natura ciò che è frutto degli stimoli dell’ambiente di crescita e di precoci studi, o più spesso di ingerenti pressioni genitoriali, che nei piccoli geni vedono un’occasione di redenzione sociale.
Dalla Bellissima di Luchino Visconti alla Little Miss Sunshine di Jonathan Dayton e Valerie Faris, la speranza per il futuro poggia sulle piccole spalle di bambini defraudati della loro essenza, ridotti a fare ciò che in realtà già sono nel perverso gioco alienante della spettacolarizzazione dell’infanzia. Ti lascio una canzone o il suo recentissimo clone commerciale Io canto poggiano sullo stesso meccanismo, in cui lo spettatore gode di ugole minute, lisciate e conciate a festa per l’occasione, con lo spirito compiaciuto con cui si assiste alla lettura della letterina di Natale o alla recita di paese, magnificando le doti del proprio pargolo, già naturalmente padrone del metodo Stanislawsky che gli ha consentito di interpretare con impressionante realismo una pecora del presepe.
Gode soprattutto di una presunta innocenza, che anni di talent e reality show hanno seppellito sotto il malizioso manierismo di arroganti ventenni, esaltati come gli young urban professional di qualche decennio fa, alla cui finzione ormai logora la televisione risponde con il continuo abbassamento dell’età della propria merce umana, alla ricerca di una perduta spontaneità. Ma fin dove è possibile spingersi? Vedremo forse gare di nuoto tra feti nel liquido amniotico? No, ho di meglio: tornei di poesia epica tra embrioni, intitolati, eloquentemente, Chansons de Gestation.