RENZO FRANCABANDERA –  Dopo più di dieci anni torna in scena, grazie alla traduzione e regia di Walter Le Moli “Max Gericke – La più gran parte della vita è vita passata, meno male”, un monologo tratto da “Jacke wie Hose” di Manfred Karge, interpretato da un’applauditissima Elisabetta Pozzi.

Martedì c’è stata l’ultima replica. Il Piccolo Teatro Studio, trasformato in un universo semicircolare con la scena sul lato rettilineo. Un’interno anni Trenta-Quaranta nel quale lo spettatore è chiamato ad entrare restando a ridosso del muro, come in una visita di condoglianze, o in un interrogatorio in caserma. Un tavolino, un mobiletto con una tv d’altri tempi, e due poltrone consumate dal tempo.
Dal buio viene fuori un anziano, in identità immobile con la poltrona in cui pare incassato. La lenta mano si muove sincopata, i gesti scolpiscono uno scenario pietrificato. Le parole un singulto psicotico, e la pedana di legno di pochi metri quadri su cui tutto questo si genera è quasi prigione.

Lui è lì, ad innaffiare le rughe con qualche birra, come un campo arido a cui poco giova uno scroscio di pioggia.
Pian piano Max Gericke si racconta. Racconta di lui e di sua moglie Ella.
E poi, mentre racconta di sè, Max dice di quando lui stesso è morto.
Ma allora chi sei? Chi sei tu che parli?

In questa produzione Fondazione Teatro Due ospitata dal Piccolo Teatro Studio, il testo di viva drammaticità deldrammaturgo tedesco Manfred Karge, ritorna dopo anni, attraverso una traduzione, quella di Walter Le Moli, in un italiano vivo, che rende l’opaca reclusione al limitare della vita. A poco più di vent’anni, Ella, infatti, si ritrova vedova, nella Repubblica di Weimar in piena crisi economica. La Prima Guerra Mondiale è finita da poco, appare all’orizzonte l’angoscia hitleriana. Una quarantennale solitudine ed una vita a sprazzi, portata avanti da uomo.
Si, perché Ella capisce che per sopravvivere l’unica soluzione è diventare un “fu Max Gericke”, anzi, di vivere da Max Gericke senza esserlo. Cambiando sesso. Lavorando da uomo, bevendo da uomo, maledicendo le donne, il tempo ed il governo.
La più classica delle intuizioni drammaturgiche del Novecento sul tema dell’identità, ma fuori dalla prospettiva dell’angoscia della finzione psicanalitica, perchè questa storia è realmente accaduta: per non perdere il lavoro di suo marito, la donna cui il testo è ispirato si è realmente sostituita a lui, ne ha preso l’identità, rinnegando di fatto la sua femminilità.
Molteplici ricchezze e sfumature emergono nella negazione di se stessa che la donna porta avanti, ma due paiono più evidenti nella messa in scena Le Moli/Pozzi. La prima è insita nella facilità con cui ci si possa inventare altro da sé, in una società di solitudine e indifferenza. Max era un solitario, pochi lo conoscevano, anche sul lavoro. Nessuno si è mai accorto dello scambio.

La seconda è la negazione del genere, la repressione di ogni istinto di femminilità, che però la messa in scena di Le Moli, affidata alla struggente interpretazione di Elisabetta Pozzi, recupera in un finale epico: in fin di vita, questa donna, diventata uomo per necessità, rimasta tale per inedia, prova un sussulto vitale, anche solo biologico, di affermazione del proprio Io.
Manfred Karge, attore e regista, di scuola brechtiana, oltre che drammaturgo, tornerà lui stesso, in questa stagione, alla regia di Jacke wie Hose (Giacca come pantaloni), al Berliner Ensemble, affidandone l’interpretazione a Swetlana Schönfeld, con il debutto previsto per il 28 novembre prossimo.
Lui, direttore di scena, attore e regista sia per il Berliner Ensemble che con la Volksbühne di Berlino, interprete nel 1983 con Thomas Langhoff di “Riva abbandonata”, testo di Heiner Müller, ambientato in un deserto post-apocalittico di lattine vuote e rottami d’aereo, ed a proposito del quale Oliviero Ponte di Pino avvertiva come “la consapevolezza di non poter recuperare la totalità del mito e del mondo che lo sottendeva è acutissima, quasi dolorosa”.
Qui non del mito e del mondo, ma di un universo, quello femminile, si tratta. E di solitudini, di barriere volontarie e reali. Come quelle de Il cane del muro (1990), altra drammaturgia di Karge, che racconta di un uomo che fa la ronda con il suo cane sotto il muro di Berlino.

A Milano, nelle quasi due ore di monologo, il cane diventa un coniglio, forse frutto di un’invenzione forse esistito, e il muro la prigione che Ella, una Biancaneve protagonista di una non-fiaba, ha costruito negli anni.
Con il lento evolvere del racconto e dei movimenti, la Pozzi fa crescere il suo personaggio, indagando il buio esistenziale che avvolge l’esterno della prigione nella quale si è volontariamente rinchiuso, e il progressivo spasmo, che la regia declina come volontà di un ultimo tentativo di vivere la propria identità sepolta da decenni.
In un finale esemplare per nitidezza interpretativa e capacità di calamitare con gesti e parole l’attenzione del pubblico, l’attrice fa rivivere la donna divenuta uomo, che, dopo quarant’anni, prova ad indossare le scarpe coi tacchi.
Un esito tragicomico elegante e commovente, che ondeggia fra gli ultimi fotogrammi di Morte a Venezia di Visconti e il Dustin Hoffman di Tootsie. Il barcollare instabile sorreggendosi alla poltrona, con tacchi e parrucca, nella consapevole attesa della goccia nera della tinta ai capelli che segnerà il trapasso, essendo una parte di sè già consapevolmente trapassata.
Ella guardandosi allo specchio, vecchia strega, si chiederà chi sia la più bella. E rimpiange la Biancaneve che lei stessa è stata ma che non ha avuto il coraggio di essere. La Biancaneve rimasta oltre le montagne, oltre i macigni di un’esistenza vissuta per necessità prima, e quasi per caso poi.