BERNARDI/FRANCABANDERA | Il Belarus Free Theatre, nato nel 2005 durante il secondo mandato del presidente Alexander Lukashenko, propone al festival VIE una rassegna di spettacoli che riflettono sul potere dell’arte in una nazione oppressa da regime, l’unica in Europa dove è ancora consentita la pena di morte
Gli occhi di Alessandro Vincenzi ci raccontano l’esperienza del Belarus Free Theatre, in una mostra fotografica dedicata al neo-nato gruppo al foro boario. Mentre i nostri occhi scrutano fissi il palco durante la performance di Being Harold Pinter, senza potersi distaccare un istante. Sette attori che si alternano davanti ad altri increduli occhi. Sono gli occhi del premio nobel Harold Pinter in uno spettacolo dedicato al grande maestro.
Storie che si intrecciano, colori che si mischiano, luci che si alternano, voci che si alterano. E un aereoplanino che vorrebbe volare per sempre, nelle puerili speranze di un popolo, la purezza che si brucia udita la parola DIGNITA’.
Dignità, qualcosa di ambito, lontano, perso ma inseguito durante lo spettacolo, tra le immagini della disperazione e tra quei dialoghi dal ritmo serrato, quella petulanza, figlia della paura.
I personaggi a teatro non sono liberi di uscire dal proprio ruolo e dal proprio destino quanto un popolo sotto regime dittatoriale non è in grado di esprimere se stesso e quello che è quanto vorrebbe.
Ce li immaginiamo così i prigionieri, come quei personaggi, soffocati dal claustrofobico telo azzurro del regime, ma vitali, determinati ad evadere, a riappropriarsi della propria individualità.
La ricerca della verità non può fermarsi.
Volti coperti e storie che “si accendono” che appartengono ad uno ma che appartengono a tanti, e quel corale “Direttore, direttore, direttore”, quasi si attendesse un Godot che non arriverà mai. Questi personaggi sono tutti e nessuno.
Veli che coprono totalmente i volti di alcune donne, nel richiamo di una sofferenza comune che affligge la Bielorussia quanto ha afflitto i prigionieri politici di Abu Grhaib.
“Stai pulendo il mondo per fare spazio alla democrazia” risuona tra gesti canzonatori, pernacchie, schiocchi, urla, masturbazioni, pianti, incensi clericali, uomini privati dei loro abiti quanto della loro dignità.
Castrazioni, stupri, omicidi tra veloci scambi di sedie e di posto, gemiti nascosti dal pannello sul fondo, bombolette che schizzano un color sangue arterioso, canzoni militari e canzoni di speranza, camminate nevrotiche e circolari, balzi da una postazione all’altra, tra ritmi scanditi da un battito di mani o da un bastone che picchia a terra.
Lo spazio è quadrangolare e definito da quattro sedie poste agli angoli, è uno spazio chiuso e senza via di uscita.
L’energia sembra essere il parametro che più incide nella pièce, più che l’emotività o la logica.
I corpi degli attori albergano forze energetiche devastanti e nella loro addizione creano una sorta di frastornante bomba che scoppia nelle nostre teste alla fine dello spettacolo. Quasi a voler creare quel senso di vuoto che la prigionia porta con sé, quel silenzio imbarazzante dei traumi subiti.
E un aereoplanino di carta bruciò.
Altrettanto forti e forse ancora più riusciti nello schema emotivo di coinvolgimento del pubblico e di utilizzo in scena del “necessario” inteso a-la-Brook, il bellissimo Zone of Silence – Moderna epopea bielorussa in tre capitoli, e Generazione Jeans.
Il primo è un vero e proprio capolavoro, che non crea nessuna divisione nel pubblico, che chiama per quasi cinque minuti gli attori in scena a prendere il meritato tributo per una performance tanto intensa quanto ironica e appuntita. La saga di una nazione in transizione, di una democrazia di cui la maggior parte degli abitanti non sa dare definizione, di una nazione tormentata da piaghe come la tratta degli esseri umani, donne e bambini, o l’aborto per parto indesiderato.
Una menzione, attraverso lo sguardo dolcissimo di un burattino realizzato con fogli di giornale, alla controversia che tempo addietro ha visto la famiglia ligure italiana contrapposta all’autorità bielorussa per l’affido di una bambina. Lo spicchio di spettacolo merita un applauso a parte, che il pubblico concede a scena aperta. Poi una galleria di ritratti popolari, di forme di assurdo disadattamento, di ordinario disagio.
Cosa sia la Belarus, cosa sia Free in una terra in cui non si è liberi di vivere neanche l’espressione del Theatre, ce lo racconta questo gruppo, che riscuote consensi e patrocini ormai in tutto il mondo. Loro, combattenti per la libertà d’espressione, che quando gli furono tolte le bandiere di protesta sventolarono i jeans, generazione che vede eroi, tra gli altri, in Jan Palack e Giovanni Paolo II. E ci fanno capire come guardare una dittatura dal di dentro o dal di fuori sia un esercizio incredibile di flessibilità, che fa sovvertire i punti di vista, i luoghi comuni, i confini fra laico e religioso, fra spirito e carne, fra intenzione e azione; e come non basta aver indossato i jeans in gioventù per essere della generazione jeans, la generazione che reclama libertà di pensiero. Perché l’abitudine al completino abbinato giacca pantaloni è assai facile da prendere e altrettanto difficile da perdere. Una piccola striscia tagliata in scena da un pantalone jeans agli spettatori. Un ricordo. Un invito.