Dalla plurisecolare mescolanza etnica della Sicilia con il vicino Oriente, la cultura italiana ha ereditato tratti fondanti della propria struttura, fusi in un’incessante rielaborazione linguistica, giuridica, socio-comportamentale che è alla base della complessa costruzione dell’identità, con buona pace di certi sgradevoli druidi etnocentristi della Val Padana. E’ proprio dalla lingua araba che trae origine la parola mafia, che vuol dire, pressappoco, “ciò che non si vede, ciò che non esiste”, un significato che si addice perfettamente alla natura occulta, ghiandolare e neoplastica del potere infettivo della criminalità organizzata.
Silenziosa come la piovra, o meglio come il cancro alla cui immagine tentacolare è ormai tradizionalmente associata, cresce al buio della connivenza, complice od estorta con la paura, finché sintomi allarmanti non ne denunciano la presenza: come metafora che s’incarna, deformazioni neonatali, tumori e leucemie flagellano le popolazioni esposte ai circuiti economici delle mafie, ed il cancro morale diventa lenta agonia del corpo. La malattia reale è stata il primo segno, biologico, di una crescente fenomenologia di massa della mafia, che da tre anni a questa parte ha investito i media, scalzando la vulgata estetica, avvallata dalla mafia stessa, dei guappi di cartone de “il Camorrista” di Tornatore, dei don Vito Corleone e dei Soprano, in bilico tra simpatica parodia e struggente epopea di una mafia galante, che non uccide donne e bambini, che ha un codice etico, seppure sui generis.
Nel tessuto di questa narrazione epica, che ha avuto come ultimo, recentissimo volto quello di Gabriel Garko nella fiction L’onore e il rispetto, si è inserita la deflagrazione costituita da Gomorra di Saviano: non un ennesimo saggio sulla criminalità organizzata, ma un romanzo, per quanto intriso di mentalità giornalistica, che andava a presentare la mafia come sistema, come “economia-mondo” dell’Italia intera (sempre con buona pace dei druidi della Val Padana), scalfendo la comoda e retrograda immagine di faide familiari tra personaggi pittoreschi da profondo sud o da Little Italy.
La mafia è nuda: oggi può comparire in tutta la sua arrogante violenza nel video di un’esecuzione a sangue freddo in un baretto di periferia. Voleva essere un atto di denuncia, uno strappo nella veste della cecità collettiva, perché nessuno potesse dire “Io non ho visto”. E invece, a proteggere ancora la mafia c’è quel loop desensibilizzante della proiezione televisiva ossessiva, dell’illusoria manipolazione del tempo di You Tube, non più quarta dimensione dell’universo ma segmento compreso tra rewind e fast forward. E’ apoteosi della banalità del male della Ardent, che non riesce a suscitare né sgomento né le più profonde e arcaiche ragioni emozionali dell’etica.
Cosa resta? Una morte vera che sembra un’ esecuzione di Mafia Wars, un gioco virtuale di società molto in voga su Facebook: morte come gioco di ruolo, da cui ci protegge un serbatoio di vite restanti e la consolante palingenesi del Game Over.