ANDY VIOLET | L’ultima stagione televisiva de L’Infedele di Gad Lerner, fieramente orgoglioso del suo cantuccio riflessivo ritagliato su una La7 sempre più immersa nella ricerca di innovazione del linguaggio dell’approfondimento giornalistico, è stata ed è caratterizzata da un fil rouge, un tema portante che di quando in quando riaffiora tra le polemiche di più stretta attualità: prendendo spunto dal documentario “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo, infatti, il programma ha affrontato la vasta problematica etica, politica e sociale legata al ruolo delle donna nei media. Il programma ha avuto certo il merito di non esaurire l’argomento in due ore scarse di trasmissione, affidandone la discussione alla consueta, neutralizzante lottizzazione di opinioni tipica del talk show, ma ha al contrario cercato di evidenziare forse l’aspetto più interessante e produttivo della storia del corpo femminile, quello cioè di non essere solo oggetto di studio, ma di costituire altresì un potente strumento di indagine storica ed antropologica.
La storicità femminile, lungamente esiliata dal flusso di una narratività storiografica limitata al timbro greve dei maschi, dal vir latino al camerata fascista, è una voce di dissenso, di alterità intima e profonda, una potente occasione di confronto dialettico, e di comprensione in termini di sistema del complesso di storia materiale e mitografia di un popolo. Basti semplicemente pensare al corpo opulento delle maggiorate degli anni Sessanta, in cui si faceva carne la percezione dell’onda lunga di una rinascita post bellica, di un benessere diffuso e scintillante, in contrapposizione all’ideale androgino degli anni Settanta, epoca della prima crisi petrolifera, scalzato nuovamente dalla riproposizione della “vacca sacra” dell’illusione neoliberista degli anni Ottanta.
Di questo percorso, ovviamente ridotto ai minimi termini, resta testimonianza nel costume televisivo attraverso un passaggio di consegna alquanto significativo: a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, vedevano la luce, l’uno in Rai, l’altro in Finivest, Strix e Drive in, accomunati dalla comune liturgia del corpo femminile, ma destinati a produrre iconografie opposte. Strix, di Enzo Trapani, chiudeva idealmente gli anni Settanta con l’apoteosi di Lilith e Medea, di quella libertà femminile che agli occhi dell’uomo diventa follia e stregoneria, affronto imperdonabile di un piacere autonomo, mentre il femminismo cadeva vittima del proprio formalismo; Drive in di Antonio Ricci, invece, riattingeva all’ideale freudiano di un’amante-madre con una provocante ragazza Fast Food, “un po’ mamma un po’ porca”, come sinteticamente suggerisce Ligabue, cui rimanda anche il pur debole legame con la funzione di nutrizione, scialbe eredi delle Ekberg di “Boccaccio 70” . Quale dei due modelli abbia poi avuto la meglio, è cosa tristemente nota.