ELENA SCOLARI| Una produzione Teatro Franco Parenti e Gli ipocriti, messa a fuoco di Andrée Ruth Shammah, di Vitaliano Trevisan, con Alessandro Haber, Martino Duane, Pia Lanciotti e Pietro Micci. In scena al Franco Parenti fino al 10 aprile 2011.
Lo statista Bettino Craxi va in scena, racconta se stesso sullo sfondo di una Tunisia molto italiana.
“Gli italiani non amano la libertà, salgono istintivamente sul carro dei vincitori. Amano di più l’uguaglianza. O meglio l’uniformità”.
Questo una dei concetti più interessanti nel testo pieno di intelligenza scritto da Vitaliano Trevisan, ispiratosi al libro “Route Al Fawara, Hammamet” di Bobo Craxi.
E’ suo padre Bettino a pronunciare questa frase, in scena, e Alessandro Haber a darle voce. Un Haber che rapisce l’attenzione fin dal suo ingresso sul palco e non molla più lo spettatore fino alla fine dello spettacolo.
In Una notte in Tunisia Craxi è seduto alla sua grande scrivania, una scrivania di un legno povero, povero come la sua condizione di statista risultato alla fine perdente ma non disposto a perdere anche l’uditorio. Craxi/Haber legge se stesso in un unico lungo discorso, con tanto di fogli alla mano, come in una concione politica, parla rivolto ai suoi unici ascoltatori, i parenti che l’hanno seguito ad Hammamet dopo lo scoppio di Tangentopoli nel 1992, come ad astanti di un comizio.
L’ascoltatore privilegiato è però il veneto Cecchin (un sorprendente Pietro Micci), il portiere di notte dell’Hotel Raphael di Milano che Craxi si è portato in Tunisia come confidente, servo per niente sciocco del padrone, domestico che sogna di fare lo scrittore e che, in quanto portiere d’albergo, non ha visto e non ha sentito molte cose interessanti sulla storia italiana.
Cecchin è il personaggio d’invenzione meglio riuscito, e il suo rapporto con Craxi il più perfettamente teatrale: descrive le azioni in terza persona come una sceneggiatura vivente, è imperturbabile ma permaloso come tutti i veneti, e scambia con lo statista brevi e impagabili battute.
Il testo di Trevisan è ben scritto, profondo, cinico, Haber è un Craxi sprezzante nel descrivere “il popolo” degli italiani e il loro opportunismo. Nei giornali italiani si trovano dichiarazioni aggressive di chi aveva ricevuto denaro o vantaggi: “…di qui sono passati tutti, registi, attori, per una fiction, per la direzione di un teatro Stabile, tutti”.
Il politico è divorato dalla malattia e descrive l’Italia e il suo sistema corrotto come un corpo nel quale le cellule malate si diffondono come metastasi annientando il sistema stesso. L’uomo però possiede un tale carisma e una personalità così forte da schiacciare chi gli sta intorno anche in questa condizione ormai rovinosa, tutti continuano ad obbedirgli.
Meno convincenti del duo Craxi/Cecchin sono i personaggi della moglie (Pia Lanciotti) e del fratello (Martino Duane), privi di ironia e indecisi tra noia, rabbia, dolore e senso pratico. L’assurdo piano della moglie di far rientrare il marito in Italia sotto mentite spoglie e il ruolo simbolico del fratello non sono in tono con la lucidità rigorosa del discorso del protagonista.
“Marcire in vita è terribile”, questo dice il Bettino Craxi in declino, “morto io sarà morta anche la politica”.
In un incubo il politico racconta di assistere al proprio funerale, si vede nella bara con gli occhi sbarrati e chiede a gran voce due monete per coprirgli gli occhi, gli zecchini del contrappasso. E noi forse capiamo a quali monetine sta pensando.
Uno spettacolo acuto, ricco di disincanto e Haber è bravissimo a restituire l’energico e tracotante coraggio di quel discorso storico alla Camera, che nessun altro avrebbe potuto fare.