ELENA SCOLARI| Storia della colonna infame è un progetto ispirato da Sisto Dalla Palma con Silvio Castiglioni ed Emanuela Villagrossi, regia di Giovanni Guerrieri, produzione CRT Teatro, in scena al Salone fino al 15 maggio.
Una scena piena di oggetti, un vecchio salotto con divani, tappeti, mucchi di carabattole impolverate, una lavagna , un libro sventolato da un ventilatore. E un belato in lontananza.
In questo soggiorno ascoltiamo la storia del barbiere milanese Giangiacomo Mora, che nel 1630 viene ingiustamente accusato di essere un untore di peste, sulla base di una vaga dichiarazione della donnetta Caterina Rosa che dice di averlo visto pulirsi le mani da un unguento ritenuto mortifero sulla muraglia di via della Vetra a Milano, il malcapitato viene arrestato e poi torturato per estorcergli una confessione: c’è bisogno di un colpevole, il popolo lo pretende. Mentre il terribile contagio dilaga in città, il Mora sotto processo è costretto a coinvolgere altri innocenti, per rendere verisimile una verità inventata. E che lo porterà alla morte, epilogo tagliato in questa rielaborazione del testo. Viene taciuto anche che una colonna, detta appunto infame, era stata eretta in Via G.G. Mora a Milano a memoria di questa vergogna e poi distrutta.
Nello spettacolo questa lacerante e crudele vicenda giudiziaria viene indebolita: la potenza intrinseca ai fatti, e le parole, cariche di una spinta emotiva commovente che può perfino mettere a disagio lo spettatore, sono impoverite da una scelta di recitazione piana e molto distaccata.
Un bravo attore come Castiglioni e una degna compagna (Emanuela Villagrossi) sono penalizzati da un’idea registica che, a nostro parere, non è funzionale ne’ ad esaltare le loro qualità interpretative ne’ a valorizzare un gioiello di modernità per stile e argomento – ahinoi attualissimo- come sono gli atti del processo della Storia della colonna infame.
C’è un’azione scenica fortemente simbolica: la costruzione di una pila fatta di tanti piani di bicchieri di cristallo, interpretabile come colonna o forse come fragile castello accusatorio. Entrambe le ipotesi ci sembrano però troppo “aggraziate” rispetto alla storia di profonda ingiustizia che ci viene raccontata.
Il coup de théâtre finale è lo svelamento del mistero sonoro del belato: dietro un velo compaiono nel retropalco due pecore vive. “L’irruzione in scena della vita reale: le pecore belano in maniera imprevedibile durante lo spettacolo”, secondo la scheda di presentazione. Mah. Fossero state capre avremmo potuto pensare al capro espiatorio, questa incursione ovina ci è sembrata piuttosto inopinata, nonostante il campagnolo effetto sopresa.
Veniamo poi a sapere, parlando con la compagnia, che tutti gli oggetti presenti in scena erano di proprietà di Sisto Dalla Palma (direttore del CRT fino alla sua recente scomparsa), ispiratore di questo progetto manzoniano e grande accumulatore in vita, ci spiegano che come lui salvava le cose così il regista Guerrieri intende salvare le parole e per questo le fa dire in modo sussurrato, ma siamo sicuri che per salvare la denuncia di una colpa grave, della tortura, della giustizia sommaria di inquisitori diabolici e superficiali questa vada sussurrata?
E’ difficile che lo spettatore possa capire questi rimandi personalissimi, il senso dello spettacolo rimane celato in elementi segreti e privati.
Abbiamo apprezzato l’idea di concludere con un aggancio ai Promessi sposi, in una delle prime versioni del romanzo La colonna infame ne era un capitolo, i due personaggi diventano infatti Renzo e Lucia, dopo i fatti narrati.
Ci sembra che l’intento di Manzoni non sia stato rispettato. A voi la sentenza.
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