MARIA CRISTINA SERRA | Al Musée du Quai Branly, un’occasione rara per accedere ai “segreti” dell’arte africana, frutto di civiltà antiche e tradizioni complesse, che hanno prodotto opere di grande valore artistico, per comprendere appieno la profonda umanità, spiritualità e universalità di opere compiute da artisti “senza nome”, che incantano
La Senna, silenziosa e maestosa, circonda l’Ile Saint Loius e l’Ile de la Citè, sulla quale svettano le guglie sbiancate e i gargouilles di Notre Dame, come un faro d’orientamento, dividendo la città nelle due sponde opposte, la gauche e la droite. “Dall’alto di tutte le sue pietre, gelosa, severa e immobile, con lo sguardo di traverso”, scriveva J. Prèvert, osserva il fiume “con il suo bel vestito verde e le luci dorate che se ne va piano, piano, verso il mare, passando per Parigi senza preoccupazione”. Camminando dal ponte dell’Alma, lungo i Quais che portano al Musèe du Quai de Branly (dove fino al 24 luglio si può ammirare la mostra sui “Dogon”) viene naturale scendere fra le banchine a osservare le barche dagli accesi colori pastello ormeggiate. Sembra quasi che il mondo di Doisneau, Carnè, Clair, Prèvert e quello fantastico di Amelie Poulain ci venga incontro per svelarci i segreti e la magia delle “piccole grandi cose” Poi,come in un film di animazione ci troviamo quasi a sfiorare con le dita la punta della torre Eiffel percorrendo la passerella pedonale Debilly , prima di entrare nel museo, accolti dalla figura ermafrodita Djennenkè del X secolo, con le braccia elevate al cielo, che campeggia sui manifesti di oltre 2 metri.
La millenaria arte Dogon, nata a ridosso delle impervie Falesie di Bandiagara, che alte fino a 400 metri si estendono per 250 kilometri fra gli aridi altopiani del Mali e del Niger, luogo di incontro e scambio fra culture secolari, “ha dato luogo ad una produzione artistica ricca e multiforme”, spiega Hélène Leloup, commissario dell’esposizione, “che si è affermata soprattutto per le forme esteticamente moderne e armoniose delle sue sculture, maschere tribali ed oggetti di uso comune o sacrale, un’arte a tratti rude, che non si perde in inutili ornamenti, che va all’essenziale”.
Con rigore scientifico ed estrema raffinatezza espositiva, più di 330 opere sono suddivise in spazi che raccontano l’evoluzione dello stile, la cronologia e l’etnia di appartenenza, che come un mosaico, si sono amalgamate in questo tratto dell’Africa Occidentale. In un affascinante percorso emotivo ed estetico, spogliati dei pregiudizi della mente e della cultura occidentale, si entra in sintonia con le opere di artisti anonimi che, coniugando con maestria dinamicità e rigidità, affermano un’ideale di armonia che incanta.
Sono per lo più sculture in legni duri, resistenti ai secoli e rivestite spesso di una patina rituale dai toni caldi, la “crouteuse”. L’iconografia è per lo più umana: guerrieri, figure femminili dispensatrici di vita, ermafroditi e coppie gemellari, simboli di dualità, personaggi con le braccia alzate in gesti propiziatori, più raramente accovacciati o genuflessi: Il senso di quotidianità predomina ed è inscindibile dall’espressione artistica. Tutto è vita e la vita si confonde con l’arte. A partire poi dal XV secolo, la rappresentazione diventerà più funzionale, con figurine di portatrici d’acqua, macinatrici di farina, musicisti. La nascita, la morte, il lavoro, i riti religiosi, la politica, l’educazione, sancivano i momenti di coesione sociale e ne fissavano i codici estetici con linee pure e rigorose, a tratti ieratiche.
Il soffio vitale, l’energia, lo “Nyama”, che secondo la tradizione animista di quei popoli è insita in ogni cosa, sembra palpitare lungo il percorso della visita. La cornice storica e geografica, propedeutica alla comprensione delle opere, fa da filo conduttore per dieci secoli evidenziando similitudini e differenze. I Djennekè (X-XIX secolo), originari dell’impero del Ghana (attuali Mauritania e Mali) nell’XI secolo, a seguito dell’islamizzazione della zona, si spostarono verso il Nord-Ovest, mantenendo così integra la loro identità aristocratica con figure allungate, dai decori asimmetrici, le belle teste sormontate da chignon o treccine di influenza berbera, occhi sporgenti e nasi sottili, racchiudono in sé la sintesi dell’arte Dogon. Le suggestive figurine antropomorfe, inginocchiate, e i cavalieri nobili le ritroviamo anche nell’arte N’Duleri (XIV-XX secolo), con accentuate forme longilinee e caratteristici occhi obliqui, di particolare eleganza. I Tambo, i Niogom e i Tellem svilupparono la loro cultura al riparo delle falesie (X-XVIII secolo) e ciò conferì loro un’indipendenza stilistica particolare. Spesso le figure sono prive di gambe e braccia e la loro forma “naturale” si confonde con il ramo d’albero su cui sono state intagliate. Le silhouettes Tellem (etnia dall’origine misteriosa e dai ” poteri magici”, scomparsa dopo l’arrivo dei Dogon-Mandè nel XIV secolo) hanno sovente le braccia alzate, come in invocazioni rituali e sono una metafora all’equilibrio.
I Mandè, popolo del Sud-Ovest, a cui si deve l’elaborazione del “classico stile frontale delle falesie”, sono presenti con sculture di splendida fattura. Alcune rievocano archetipi e miti, altre avvenimenti legati ai clan di appartenenza. Proporzioni di perfetta armonia caratterizzano le maternità, dai visi di regale compostezza. Di consolidata fede animista, anche in piena colonizzazione musulmana, il popolo di Tintam (XIV-XX secolo) esprime nella sua arte i riti della vita sociale. La grazia delle portatrici di acqua e delle maternità, evocative anche di facoltà terapeutiche e propiziatrici, ricordano l’iconografia dell’antico Egitto e sono una sintesi perfetta di ragione e sentimento.
E’ impregnata, invece, di religiosità l’arte Bombou-Toro (XV-XX secolo) dai singolari visi geometrici e dagli occhi a bottoncino. La visita si conclude con le sezioni dedicate alle Maschere, che ci introducono alla ricchezza di credenze e miti di questi popoli; e all’oggettistica, che ci svela le consuetudini private, rammentandoci come l’arte, la vita e il sacro siano indissolubilmente legati tra loro.