RENZO FRANCABANDERA | Si chiude l’edizione numero quattordici del Festival ideato a fine anni Ottanta da Massimo Paganelli e ora affidato alle mani di Andrea Nanni, che è riuscito nel tentativo di coniugare continuità e innovazione, per una delle più prestigiose rassegne italiane sulla nuova scena
Il luogo-rituale è un po’ come un santuario, un posto dove avvengono alcuni eventi di particolare intensità emotiva e dove il sito ospitante è consustanziale all’evento stesso.
Per fare un esempio esemplificativo: è stato possibile spostare Arezzo wave (o meglio la manifestazione che ad Arezzo si svolgeva) in Puglia, assai più difficile sarebbe spostare un santuario di una qualche apparizione mariana, o la residenza sepolcrale di qualche santo dal paese dove l’epifania è occorsa o il santo ha vissuto.
Il motivo è chiaro: alcune funzioni antropologiche trovano ragione stessa del loro essere nel luogo che le ospita, con cui condividono non solo una storia passata, ma anche un’intima co-partorienza.
Certo anche spostare Arezzo wave non è stato indolore, ma un Festival Inequilibrio fuori dal microcosmo di Castello Pasquini e dalla residenza artistica Armunia sarebbe davvero una piccola bestemmia.
Perché le sensazioni di arrivare in questo luogo, vedere dall’interno del castello, dalle finestre ogivali, il mare che si fa spuma fra i pini che fanno di contorno al parco, mentre il vento di maestrale ricorda all’uomo quanto sia piccolo di fronte alla natura, tutte queste cose, dicevamo, sono un tutt’uno con la residenza artistica che in inverno ne abita le stanze infreddolite, e con la rassegna di arti sceniche che ogni anno a Luglio si svolge in questo luogo.
Dopo il passaggio di mano alla direzione del Festival l’anno scorso, alta era l’attesa per il lavoro di pianificazione e direzione artistica di Andrea Nanni.
Possiamo dire ora, a conclusione di tutto, che l’esito è stato alto, l’operazione riuscita, e persino, se possibile, innovata e rafforzata, con un ampliamento del dialogo e dell’interazione con il territorio e la sua gente.
Il Festival è davvero esploso all’esterno, utilizzando anche numerose strutture del territorio oltre al Castello, come il Palazzetto dello Sport di Rosignano Solvay, o il bellissimo Teatro Roma nella magica cornice di Castagneto Carducci, fino ai negozi di Castiglioncello, dove si sono svolte performance di varia natura, e spingendosi fino al coinvolgimento di attori non professionisti in spettacoli come quello degli Omini, o come nelle dolci performance di Virgilio Sieni, che hanno chiamato donne e bambini del luogo per un’operazione artistica che assume lo straordinario valore del tentativo di ampliare il gesto performativo, il movimento scenico, spingendolo verso il suo più intimo concettuale, ovvero il quotidiano.
Ci sono piaciuti, del secondo fine settimana, in particolare, alcuni lavori, come quello di MK, Quattro danze coloniali viste da vicino, ospitato a Castello Pasquini, nella Tensostruttura 1.
Nei 30′ di durata, il lavoro rivela un’idea creativa forte, appuntita, che attraverso la concettualizzazione dell’esotismo da viaggio, racconta l’umanità stanziale. In fondo cosa sono le foto scattate dai cacciatori nella savana con il piede sul capo della preda, se non iconografia classica della dominazione, da quella sacra (si veda la Madonna col serpente) fino a quella profana ed erotica dei rapporti di sottomissione.
Così pure il terzo movimento, dei quattro, racconta di come nessun dominatore domini solamente e nessun dominato sia davvero solo schiavo. L’interazione, il rapporto fra due esseri viventi, finisce per essere comunque contaminazione, fino al paradossale rovesciamento dei ruoli; un po’ come avviene ne Le mille e una notte, dove la schiava avvince il suo padrone, in un continuo sviare rispetto a una soluzione finale che riesce a procrastinare affinchè non arrivi mai, stesso tentativo che la compagnia compie rispetto al gesto scenico, per spingerlo all’estremo ma garantendone sempre una reversibilità, anche concettuale, all’ultimo secondo. Affascinante.
Il bilico, l’instabile, sono alla base anche del lavoro di Cie Disorienta, progetto Strata.2, dove lo spettatore assiste, in due frazioni, di quasi ugual durata ai due lati di un’unica medaglia.
La performer è in equilibrio instabile su tre pali che, congiunti fra loro da tiranti elastici, garantiscono all’elementare struttura, alcuni gradi di libertà all’interno dei quali, come dentro un castello logico escheriano, vengono esperite possibilità di comunicazione all’esterno di sentimenti.
Nella prima frazione il tutto avviene sotto un velo su cui vengono videoproiettate sequenze digitali di tipo frattale, a dare l’idea di un corpo crisalide che si intravede.
Nella seconda metà il mistero è svelato: tutto è nudo sotto i nostri occhi. Alcune immagini poetiche prendono corpo evocando marinai, o equilibristi, o eterne crocefissioni.
Forse, però, il lavoro si allunga troppo attorno a queste immagini potenti, e l’attenzione dello spettatore finisce un po’ per calare: come un baco che invece che lasciare alla sua crisalide, appunto, uno strato facile da rompere, continui a tesserci attorno un filo che finisce per soffocare le immagini. Servirebbe probabilmente un po’ meno, per avere molto più.
La messa in scena che Egumteatro fa del bellissimo testo postumo di Sergio Atzeni, Bellas mariposas, è una delle cose più interessanti del Festival. Ben interpretato da Monica Demuru diretta da Annalisa Bianco, il racconto è quello di una ragazzina di periferia, inchiodata ad un’impalcatura di vita con quei legami che solo la povertà riesce a rendere così saldi e spesso inscindibili.
Nella bella scena di Paolo Bruni che ci riporta in un’universo di tubi di cantiere, porte aperte sul nulla e finestre cieche, la piccola protagonista si muove come in un’altalena continua nel degrado della periferia di Cagliari, tra microcriminalità, droga e sessualità spiccia.
Lei cerca altro, in un’amicizia, in un’amore, in un sogno di vita.
Nulla di tutto questo pare realizzarsi nel volgere dello spicchio di vita raccontato, che vive momenti di poesia scenica nel racconto della piccola parentesi di felicità al mare.
L’adattamento di un testo così profondamente letterario a teatro non è cosa agevole. Lo spettacolo, bello e intenso, paradossalmente paga la straordinaria bellezza e violenza delle parole, a cui spesso aggiungere senza togliere risulta impresa difficile.
Perchè arricchire un testo narrativo, portato in palcoscenico quasi tal quale, anche solo con una messa in scena ben interpretata, vuol dire togliere spazio alla fantasia di chi legge o ascolta, come l’abbellimento in musica, esercizio di creatività istantanea su tema altrui che risulta sempre insidioso anche per i grandi. Il Bellas Mariposas di Atzeni non perde la sua qualità narrativa nella trasposizione scenica, ma finisce alla fine per essere testualità un po’ ingombrante, in modo tale che la regia, che non vuole usare violenza alla parola scritta, deve di tanto in tanto escogitare qualche idea per interromperla, per inserire pause di vocazione scenica, di alleggerimento del monologo. Entrate e uscite, sospensioni, che non sempre riescono ad evocare tutte profondamente un altrove teatrale che non sia solo figlio dell’universo che la parola crea, come dolcemente e poeticamente avviene, ad esempio, nella scena del bagno a mare, dove l’attrice finisce fradicia, bagnata da bottiglie d’acqua, in un’abluzione che sa di rito purificatore.
Insomma, aggiungere qualcosa ad un bellissimo testo è sempre cosa ardua. Il lavoro di Egum, ben interpretato e ben ambientato, ci racconta e trasmette esperienza della difficoltà di questo genere di sfide.