MARIA CRISTINA SERRA | L’essenziale funzione dei fotoreporter dal fronte spagnolo ai recenti conflitti è messa a fuoco dalla mostra alla Maison Européenne de la Photographie, che chiude in questo fine settimana. Ma le loro immagini restano icone impresse nella memoria storica dell’umanità
“Una fotografia non può costringere – scriveva Susan Sontag- non può svolgere il lavoro morale al posto del nostro. Ma ci può mettere sulla buona strada”. Novanta fotografie (esposte alla MEP), bellissime e terribili nella loro crudezza “istantanea”, che hanno documentato 70 anni di conflitti nel mondo, dalla Guerra civile in Spagna nel 1936, al Vietnam, alle guerre etniche nei Balcani, ai conflitti senza sosta in Medio Oriente, fino al 2007, ne descrivono l’inutile violenza, per riflettere sul potere simbolico delle immagini, spesso diventate icone, conservate nella nostra memoria collettiva.
“La tragedia, la miseria, la sofferenza, che vedevo in guerra mi hanno consumato”, racconta il fotografo inglese Don McCullinn, che nella sua lunga carriera ha attraversato i fronti di guerra degli ultimi decenni del Novecento.
Il soldato americano, che con lo sguardo perso nel vuoto, atterrito, stringe con entrambe le mani la canna del fucile, come un estremo appiglio, è l’inizio di un viaggio nel dolore, che prosegue con le altre immagini del Vietnam che hanno fatto la storia. La celebre istantanea di Nick Ut (gli valse il Premio Pulitzer nel ’72) della piccola vietnamita Kim Phuc in fuga, nuda, il corpo ustionato, in preda al terrore, dal suo villaggio colpito dai bombardamenti americani al napalm, costrinse il mondo in quegli anni a non voltare lo sguardo davanti alla violenza, che si abbatteva sui civili inermi. Quelle popolazioni che, ieri come oggi, pagano sempre il prezzo più alto all’irragionevolezza umana.
Lo scatto agghiacciante di Eddie Adams, che nel ’68 riprende l’istante in cui il prigioniero vietgong viene ucciso con un colpo alla tempia da un generale del Sud Vietnam, sembra un pugno nello stomaco sferrato all’osservatore, mentre segue il movimento accennato dalla dinamica dello sparo. Un documento unico che attraverso l’attimo fuggente riassume un intero capitolo della storia recente, senza veli inutili di pietà, perché i fatti accaduti non li contemplavano.
La guerra è una faccenda sporca e per documentarla e farne conoscere gli orrori è necessario sporcarsi le mani, avere coraggio, accettare le sfide dei rischi che implica. E la mostra è anche un’occasione per ricordare i tanti fotoreporter morti sui campi di battaglia, impegnati nella missione per raccontare al mondo la verità dalla “prima linea”. Dalle più recenti di Tim Hetherington e Chris Hondros, a Misurata in Libia, a quelle passate. Michel Laurent (Premio Pulitzer 1972 per gli scatti sulle esecuzioni a sangue freddo nello stadio di Dacca in Bangladesh) fu l’ultimo fotogiornalista ucciso in Vietnam, tre giorni prima che le truppe del generale Giap entrassero a Saigon. Vent’anni prima, il 25 maggio 1954, durante una “tregua” della guerra dei trent’anni per l’indipendenza indocinese (tra la fase coloniale francese e quella americana), Robert Capa venne dilaniato da una mina.
La sua compagna, Gerda Taro, era stata già uccisa il 26 luglio del 1936, mentre documentava la battaglia di Brunete fra le milizie di Franco e le Brigate Internazionali. Un amore il loro, esploso tra le fila dei rifugiati politici che si riunivano nei circoli antifascisti del Quartiere Latino parigino negli anni ’30. Lei, Gerta Pohorylle, ebrea tedesca di grande fascino e personalità, in cerca di identità e indipendenza, lui Endre Erno Friedman, originario di Budapest, fotografo agli esordi.
Dotata di grande intuito e comunicativa, sarà lei a modificare i loro nomi e a imporre alle agenzie la sigla Taro-Capa. L’apprendistato alla Alliance Photo le fece fiutare in anticipo che il mercato si stava trasformando, pur mantenendo la personale autonomia. Il golpe militare in Spagna del 18 luglio ‘36 e la guerra civile che ne seguì sconvolse le loro vite, cementandone la passione politica. “Il miliziano morente” di Capa è un omaggio senza tempo al coraggio; mentre l’istantanea del D-Day in Normandia, resta uno storico “fuori fuoco”, dovuto all’emozione di assistere all’alba che stava mutando il corso della storia.
E’ invece dell’estate del ‘36 lo splendido ritratto, scattato dalla Taro, della combattente repubblicana, che si esercita sul litorale di Barcellona. La figura di profilo, protesa in avanti, la pistola puntata, le scarpe col tacco, fatta con una Rolleiflex, pur tradendo uno stile “militante” è di grande suggestione. Di lì a poco con la più duttile Laika registrerà la tragica escalation con i bombardamenti, il fronte, i feriti, i rifugiati, la resistenza.
Una luce accecante avvolge l’entrata di un bunker antiaereo in Spagna e fa da cornice ai bambini ammassati che attendono il” cessato allarme”. Il suo autore, David Saymur, morì nel 1956 durante la guerra lampo fra Egitto e Israele nel ’56.
Le “fosse comuni ” in Bosnia di Gilles Peress sono una ragnatela di morte. Sembra una deposizione caravaggesca il dolore delle donne musulmane intorno al giaciglio del loro caro di Georges Merillon: i rossi, i senapi, i grigi e i marroni accentuano una sofferenza antica come il mondo. Sembra un quadro realista dell’800 la marcia faticosa sulla neve dei soldati che in Cecenia trascinano il corpo del compagno senza vita, riposto dentro un lenzuolo rosso. Thomas Dworzak avvolge la scena con una coltre di nebbia, come per pudore. Lo strazio del corpo appeso all’ingiù di un agente della polizia segreta contro cui si accaniscono gli insorti ungheresi nel ’56, è reso con magistrale realismo da Mario de Blasi. I palazzi sventrati in Libano di Gabriele Basilico sono il simbolo della distruzione. Con uno sguardo penetrante e fuggitivo Paolo Pellegrin fissa la cattura di un nemico da parte dei soldati israeliani, con forti e sapienti contrasti bianco/nero, fra luci e ombre.
La normalità apparente annuncia l’orrore in Alexandra Boulat. Con la sensibilità che ha contraddistinto la sua carriera di grande fotogiornalista di guerra (interrotta con la morte improvvisa nell’ottobre del 2007 per un aneurisma ) ci spiega con uno sguardo “occidentale” la complessità e la scala valoriale di una tradizione diversa dalla nostra tra il Kosovo, il Pakistan e l’Afghanistan. Come un degrado di forme, ordinatamente allineate, alcuni proiettili fanno mostra di sé su di una mensola, fra loro campeggia un tulipano di carta, “innocente” evasione tra simboli di morte in una giornata qualunque a Quetta (Pakistan 2001), per rammentarci che alla guerra e alla sua ordinaria follia non ci si deve abituare mai.