RENZO FRANCABANDERA | In scena in questi giorni al Tieffe di Milano, in Via Ciro Menotti dove un tempo era il Teatro dell’Elfo, due atti unici di Eduardo de Filippo scelti da Alfonso Santagata.
E’ lui. E’ sempre lui, leggero e pesante insieme, contadino e poeta. La rilettura (finalmente una non machiettistica e imitativa delle cose più superficiali di De Filippo) dei due atti unici “I morti non fanno paura” e “Il cilindro” in questi giorni in scena al Tieffe Teatro di Milano ci parla di un rapporto riuscito di Santagata con testo e scena, con ritmi spettacolari e tradizione del maestro napoletano.
Il tema chiave sotteso è quello della morte, delle sue declinazioni paradossali nel vivere quotidiano, attraverso il filtro delle miserie e degli egoismi.
Le due drammaturgie risolvono nella apparente semplicità la forza del messaggio. “I morti non fanno paura” racconta di un condominio alle prese con un lutto. Nella casa del defunto risiede di tanto in tanto un ospite occasionale cui è concessa in affitto una stanza, in cui è stato alloggiato il feretro prima della cerimonia funebre. Sarà lui a catalizzare ansie e paure, attese e scongiuri. Un finale aperto ad ogni lettura.
“Il cilindro” è invece la storia di una truffa. Per pagare il fitto a un vecchio e sua moglie che vivono di espedienti, un uomo spinge la sua giovane compagna a fingersi prostituta. Gli addescati al momento del dunque vengono però messi di fronte al fatto che la compagna apra la stanza da letto mostrando il adavere del maritino appena (fintamente) morto. Tutto va bene finchè un vecchietto raggirato non si accorge della truffa e mette sul piatto una cifra imbarazzante per ottenere le grazie della donna. A quel punto gli interessi di ciascuno si separano ed esplodono gli opportunismi.
Entrambi i lavori la morte è ovviamente pretesto per raccontare altro, e bene riesce Santagata e anche il suo gruppo di validi attori a declinare uno switch logico senza togliere mai nulla ad una teatralità robusta, tradizionale, dove le maestrie di gesto e di esperienza trovano compiutezza costantemente.
Ho riso di gusto, come da tempo non mi succedeva. E ho guardato con accondiscendenza alle scaltrezze e alle piccole maestrie di un teatro purtroppo raro da vedere, dove il semplice resta semplice incorporando il complesso con naturalezza. Dove l’esperienza è lì senza crogiolarsi di se stessa e messa al servizio di un pubblico che prova un piacere antico, svuotato di intellettualismi ma non banale.
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