MARIA CRISTINA SERRA | Lewis Hine. Il grande maestro della fotografia sociale Fotografia Straordinaria sintesi espositiva per comprendere la storia del lavoro e dello sfruttamento capitalistico nelle foto del pioniere dei reportage di denuncia e di lotta politica agli inizi del Novecento negli Stati Uniti. Da lui presero ispirazioni i grandi fotografi, a partire da Cartier Bresson, la cui Fondazione ne ospita la retrospettiva
In un mondo assuefatto ad una incessante anestesia sociale, che diluisce in particelle evanescenti l’Etica e impone come bene primario l’avidità dei consumi e un immaginario estetico stereotipato, la “fotografia sociale”, svincolata dal sensazionalismo, è ormai relegata in una nicchia per specialisti. Eppure, fin dai suoi esordi, la fotografia ha puntato i suoi obiettivi verso le tematiche sociali, acceso la luce laddove covavano soltanto ombre, svelato i drammi nascosti del vivere quotidiano, senza enfasi né deformazioni, quando i discorsi spesso sono insufficienti e sfilacciati a rappresentare la realtà e le storie dei destini umani.
Agli inizi del secolo scorso, Lewis W. Hine (1874 – 1940), di professione sociologo, decise di appendere al chiodo la forza delle parole, imparate all’Ethical Culture School, per impugnare una “Graflex 4×5” e immortalare con sguardo nitido le immagini impietose della realtà senza mediazioni, raccontando le storie dell’immigrazione, la povertà, lo sfruttamento minorile e le dure condizioni degli operai, in un’America allora terra di frontiera e di speranza. Un’occasione preziosa per rivivere la storia di quei primi anni del Novecento, dagli sbarchi ad Ellis Island, a meno di un kilometro dalla statua della libertà di New York, agli effetti devastanti della Grande Depressione del ’29, cui seguì il New Deal roosveltiano, attraverso uno sguardo “più reale della realtà stessa”, come Hine sosteneva, e comprendere molto del nostro presente, è offerto dalla preziosa mostra “Lewis Hine” alla Fondazione Henri Cartier Bresson, fino al 18 dicembre.
Volti e sguardi di un’umanità che viaggiando in terza classe abbandonava i paesi di origini, tradizioni e culture della “vecchia” Europa per cercare fortuna e riscatto sociale nel “Nuovo Mondo”, sono immortalati da Hine con poetica empatia. Sembra porgere la fotocamera ai suoi protagonisti a mo’ di quaderno in bianco su cui ognuno avrebbe potuto disegnare emozioni, dolori, dignità, senza mai sfociare nel melodramma. Ne esce un documento storico di enorme valore narrativo, che pur con i limiti tecnici dell’epoca non trascura nessun dettaglio umano e simbolico. C’è il “decoro” della povertà nelle foto d’interni delle mamme con bambini a Chicago e a New York. Le miserie si somigliano: i panni stesi vicino alla stufa a legna, il disordine che dà calore e intimità, i letti accatastati, i bambini che si stringono tra loro sorridenti, malgrado l’indigenza. Intuisce che la foto può essere un potente strumento di denuncia dello sfruttamento minorile e per conto del National Child Labor Committee, nel 1907, inizia un viaggio negli Stati Uniti per denunciarlo. I suoi reportage contribuirono anche all’approvazione della prima legge sul lavoro minorile.
Come in un racconto di Dickens un bambino malato, le spalle incassate, viene ripreso con i riccioli scomposti che gli incorniciano il visetto grinzoso, quasi da vecchio; una giacchetta stretta e logora copre appena l’adolescente con la gamba fasciata, che attende l’apertura della mensa pubblica in un sobborgo di Chicago. Il piccolo lustrascarpe chinato a lucidare lo stivale, che sembra quasi superarlo in altezza, ha uno sguardo ironico da adulto navigato. La piccola Annie sbuca dal corridoio disadorno dell’orfanatrofio di Pittsburgh con un abitino cencioso e lo sguardo incerto. Sembrano felici i figli dei minatori slavi, che in una pausa del lavoro suonano la fisarmonica. La nettezza della prospettiva frontale evidenzia i piccoli minatori di South Pit Stone, nel 1912, in Pennsylvania, accovacciati sulle rotaie, infagottati nelle divise e illuminati da una lampada che getta una luce sinistra sulle loro facce nere di carbone. Numerose le foto delle bambine occupate nelle fabbriche tessili degli stati del Sud con le loro figure sovrastate dagli enormi telai in un gioco di chiaro-scuro. Si intravede un tavolo apparecchiato, dietro l’uscio della baracca dei raccoglitori di cotone a Tifton, in Georgia, nel 1909 e davanti, scarmigliati e scalzi, nove bambini posano fieramente insieme alla madre. File di panni stesi ad asciugare delimitano come una quinta teatrale i giochi dei bambini in un cortile a Boston; i più grandi al centro, i più piccoli ai lati, altri arrampicati su un carretto. La prospettiva a campo lungo conferisce un movimento cinematografico alla scena.
“C’è bisogno della luce, della luce forte”, diceva Hine, per raccontare i volti della sofferenza e dello sfruttamento degli esseri umani. I bambini “strilloni” sul ponte di Brooklyn con fasci di giornali si mettono in posa orgogliosi, mostrando i loro visi vissuti di chi è abituato alla strada. Si intravede nelle sue foto-racconto la tradizione della grande pittura olandese, alla Rembrandt, cui si ispirò per evidenziare la “teatralità” dei poveri in cerca di un futuro. La famiglia italiana, appena sbarcata ad Ellis Island nel 1905, ha la valigia di cartone chiusa con lo spago e i fagotti sulle spalle, ma le più piccole hanno gli abiti della festa e le cuffiette con i merletti.
Convinto che “i beni materiali non sono solo il prodotto di una catena di montaggio, azionata da robot”, per Hine il progresso industriale è il prodotto di un rapporto simbiotico tra l’uomo e le macchine. “Ho voluto mostrare – sosteneva – ciò che doveva essere corretto e ciò che doveva essere apprezzato”. I muscoli tesi delle braccia in primo piano del giovane meccanico che gira i bulloni di un motore a turbina in una centrale elettrica, anticipa una delle scene cult del capolavoro di Chaplin “Tempi moderni”, così come la foto del “monello” di strada. Gli operai che costruiscono l’ Empire State Building a New York sospesi nel vuoto del centesimo piano, lungo una fune o a cavalcioni fra le travi, sono diventati icone senza tempo, di perfetto rigore formale, nonché suggerimento ancor oggi per la pubblicità. Fu un “visionario” del realismo fotografico, che visse in prima persona e sulla sua pelle le vicende drammatiche che lui stesso aveva documentato.