RENZO FRANCABANDERA | Il particolare delle mani giunte di Benedetto di Pigello Portinari di Hans Memling, ingigantite su tela formato tre per due, emergono dal buio con un graduale innalzamento del tono delle luci, in un iperrealismo fotografico che pian piano trapassa nel palesarsi del dettaglio pittorico. Pare un miracolo d’illusione ottica. Così, in generale, la messa in scena del Racconto d’inverno che il gruppo dell’Elfo, dalla regia di Bruni/De Capitani fino agli attori storici della compagnia, ha riportato in scena a Milano in questi giorni come ripresa del lavoro dell’anno passato, passa dal falso al vero, dal sogno alla realtà e viceversa.
Che il tono della narrazione sia di una tardogotica e rinascimentale neutralità si evince non solo dall’ulteriore citazione del Morieris di Memling ma anche da tutti gli altri lavori pittorici usati come sfondo della rappresentazione e dall’impianto razionale, quasi da incompiuta città ideale che la scena riporta. E’ in questo luogo di razionalità e trasparenze che si consuma il dramma della gelosia e della misoginia, quella di Leonte, Ferdinando Bruni nei confronti della fedele compagna Ermione (la solita impeccabile Elena Russo Arman), che porterà ad una diaspora familiare che solo nel finale si risolve per il meglio con il mea culpa del sovrano, distrutto dalle sue stesse insicurezze.
Forse è per il lieto fine, forse per il tono un po’ farsesco che nel secondo atto prende il sopravvento su quello tragico del primo, fatto sta che Racconto d’Inverno, pur contenendo spunti di assoluto interesse rispetto al corpus drammaturgico shakespeariano, non viene ripreso con frequenza a teatro. Quindi è indubbio il merito dell’Elfo nel concentrare uno sforzo produttivo di primo piano su un allestimento che da ormai un anno sta riportando quest’opera in giro nei teatri italiani. Sforzo perchè l’Elfo è ormai uno dei pochi teatri italiani a potersi ancora permettere messe in scena di tenore corale, che in questo lavoro, e con diversa sfumatura sia nel primo che nel secondo atto, danno il respiro della massa, dell’umano, del plurale.
A guardare la messinscena a qualche giorno di distanza, infatti, la memoria, al di là dei bei costumi pensati da Bruni/De Capitani, e delle belle istantanee degli attori d’esperienza, torna sul collettivo, sull’insieme, sulla forza del gruppo. E questo di fatto è un merito che ritorna sul lavoro stesso, confermandone la compattezza stilistica, la linearità dell’impianto narrativo, capace di tenere l’equilibrio fra dramma e farsa che Shakespeare aveva volulto per quest’opera. Non a caso si parla per Racconto d’Inverno di un Giulietta e Romeo a lieto fine.
Dopo l’iniziale e “otellesca” pazzia del sovrano che, come Lear, allontana e maledice metà del parentato, incurante di rapporti filiali e muliebri, la seconda parte del racconto si sviluppa in quei non luoghi della fantasia tipici di alcune opere del bardo, come l’altrove veneziano del Mercante, o il mondo parallelo del Sogno. Qui fra orsi e impersonificazioni del Tempo, la rappresentazione assume un tono surreale che la regia bel racconta ricorrendo ad espedienti scenici da teatro povero, come il lenzuolo scosso a ricordare il mare in tempesta, o la lanterna magica per le ombre di un reale che rimane appunto sempre in dubbio e sospeso: questo fino al finale in cui Ermione ritorna in vita, invecchiata dentro una teca (come la pianta carnivora del Giardino), quasi come ne il ritratto di Dorian Gray, a ricomporre il destino di un sentimento che si santifica e si purifica nell’astinenza. Insomma dell’anima gemella e della sua grandezza ci si accorge più facilmente quando ci viene tolta che quando l’abbiamo a fianco, pare dirci il Bardo, e con lui chi lo riporta in scena.
Ma è ovvio che questo riguarda in generale gli affetti. Il valore del consueto è sempre appannato dal nuovo, dal fuori abitudine. Quest’opera, secondo me, invita a riflettere, oltre che sul tema della dualità femminile e di genere in senso lato, sul concetto del rispetto dell’alterità e sull’impatto della consuetudine nel vivere del nostro tempo, se dovessimo cercare un’estensione al contemporaneo del letterale shakespeariano. A questo proposito non si può non segnalare la consueta filologica ricerca sul e nel testo compiuta dalla regia, capace di ravvivare con pochi ma efficaci puntelli lessicali il testo.
Non che Shakespeare non sia sempre attuale, ma molto meno di lui lo sono alcune traduzioni dal tono roboante che ancora vengono portate in scena. Il teatro, il testo sono materia viva, e “aggiornare” Shakespeare senza ammalarsi di modernismo è un’arte sottile, di cui gli Elfi sono sempre efficaci interpreti.
Racconto d’inverno è un lavoro equilibrato, pulito, divertente, che si guarda con scorrevole attenzione per tutto il tempo, complice un allestimento che non lascia mai la mano allo spettatore, facendolo entrare e uscire dall’universo fiabesco, giocando al limitare fra luce e oscurità, fra illusione e carnalità, fra iperrealismo fotografico e finzione pittorica.
Un video dello spettacolo
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